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Balcani ed Europa centro-orientale. La libertà di espressione soffre

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Senza media liberi la democrazia soffre. E rischia di indebolirsi, per poi morire. È quanto accade nei posti più lontani nel mondo, ma anche a due passi dall’Italia, nei Balcani e nell’Europa centro-orientale, un’area dove oggi la stampa ha spesso la febbre molto alta. E non per colpa dei giornalisti.

I segni della “malattia” sono numerosi. Uno, indicativo, è arrivato a novembre dall’Ungheria, dove è stata annunciata la nascita di un «enorme conglomerato di media di destra», la Central European Press and Media Foundation, che include «canali della Tv via cavo, portali internet, tabloid, giornali sportivi, quotidiani, radio e riviste», ha sintetizzato l’agenzia Ap. Il risultato? «Ha poco senso parlare di libertà di stampa in Ungheria» perché d’ora in poi «ci sarà un controllo totale» su decine di media «vicini al governo» Orban, la posizione dell’analista Agnes Urban. E non è un’esagerazione dire che «il governo esercita un dominio su quasi tutto il panorama dei media in Ungheria, limitando la sua libertà e indipendenza», ha denunciato anche il recente “Freedom Barometer”, approfondito studio della Friedrich Naumann Foundation. Che ha ricordato anche passate «acquisizioni» di testate poco amate dal potere da parte di «oligarchi» vicini al premier e «l’immediato cambiamento della linea editoriale», avvenuto subito dopo.

Freedom Barometer che ha tastato il polso anche alla Polonia, dove «il deterioramento della libertà dei media va a braccetto con le intenzioni» di chi governa di «minare lo stato di diritto e il pluralismo» nel Paese. Il quadro, a Varsavia, appare però meno fosco che a Budapest, con un panorama mediatico «pluralistico, anche se diviso tra chi sostiene e chi si oppone al governo». Anche se preoccupano gli appelli alle “ri-polonizzazione” dei media oggi in mano straniera.

E poi c’è la Serbia delle proteste degli indignados – quasi “dimenticate” o sbeffeggiate dai media filogovernativi – movimento di arrabbiati per la presa sul potere del presidente Aleksandar Vucic, che chiedono anche un accesso equo per le opposizioni ai media pubblici, oggi monopolio di chi governa assieme alla maggior parte di quelli privati. Panorama dei media, a Belgrado, che è quantomeno fosco. Secondo il portale specializzato in fact-checking “Raskrikavanje”, solo l’anno scorso tre fra i tabloid più venduti nel Paese – Informer, Alo e Srpski Telegraf – hanno pubblicato «più di 700» notizie false o erronee sulle loro prime pagine, tra annunci di guerre e invasioni da parte dei nemici kosovaro-albanesi, spesso definiti con il dispregiativo di “shiptari”, lodi a Putin, sempre descritto come il salvatore della Serbia e a Vucic, oltre a notizie tendenziose su esponenti dell’opposizione, per metterli in cattiva luce. Si tratta di un vero “vortice” di notizie calibrate ad hoc,pensato per accrescere il sostegno a chi governa, usando anche una pericolosa – soprattutto nei Balcani – retorica guerrafondaia. Senza dimenticare oscure operazioni per asservire a un’azienda vicina al Partito progressista di Vucic due Tv private molto seguite, Prva e O2, ha denunciato a dicembre il portale informativo Balkan Insight.

Ma non può sorridere nemmeno la vicina Croazia, dove si condanna un portale satirico per un articolo di fantasia o dove l’Associazione dei giornalisti croati è stata citata in giudizio dalla Tv pubblica per alcuni commenti critici. E neppure la Slovacchia, ancora scioccata dall’omicidio del reporter investigativo Jan Kuciak. E neppure la vicina Cechia, dove il premier Babis «controlla i maggiori quotidiani» e il presidente Zeman si è fatto immortalare, nel 2017, con «un finto kalashnikov in mano» e sopra la scritta «per i gornalisti», ha ricordato l’ultimo World Press Freedom Index di Reporters Without Borders. Che ha puntato l’indice anche contro la Bulgaria, sempre a causa di pressioni sui media, giornalisti sotto attacco e concentrazioni di proprietà che hanno portato il Paese a precipitare all’ultimo posto della classifica, a Est.


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