Antonella Napoli ci sta raccontando i particolari della sua brutta avventura in Sudan mentre svolgeva il suo mestiere di giornalista indipendente per denunciare al mondo le violenze del regime dittatoriale che da decenni opprime il popolo sudanese, nell’indifferenza del mondo.
In tempi oscuri nei quali si è facilmente portati a denigrare i giornalisti come “servi del potere” e persino responsabili anche dei disastri della politica, ribadiamo che il vero giornalismo è sempre un mestiere difficile. Che logora, oltre le suole delle scarpe, anche il fisico e il cuore di chi seriamente vive con passione questa professione. Certo ci sono i giornalisti con il microfono aperto a fare da amplificatori alla politica; ci sono quelli che fanno i compitini incollati alla scrivania; quelli in cerca di vana gloria, autoreferenziali, ma sono una minoranza.
Il giornalismo vero si sporca le mani, si tuffa nelle inchieste, paga pegno, spesso, molto spesso ha fatto lunghe gavette; si fa correggere l’incipit e il titolo da un caporedattore prima di pubblicare il suo pezzo. Giornalisti che prendono spintoni e subiscono intimidazioni vigliacche, come a Roma da parte dei neofascisti; che attendono sui porti per interminabili giorni che le navi dei disperati approdino per documentare la vergogna di una politica priva d razionalità e di compassione.
E poi quei tanti coraggiosi, per lo più giovani e non garantiti, che non temono le minacce di mafia e camorra, non lisciano i potenti di turno, non si camuffano in cerca di uno strapuntino al sole; ma raccontano i fatti, accertano la verità prima di metterla nero su bianco, si tengono alla larga da racconti precostituiti e ideologicamente infarciti. Giornalisti che non si affidano a ricostruzioni di fantasia, ma si attengono ai documenti, che aprono i propri occhi nell’osservare gli eventi, soprattutto quelli scomodi, sollecitando le coscienze e rischiando in proprio.
Antonella è una di queste, una persona speciale, d’esperienza rara e di coerenza esemplare. Ma sono tanti i giornalisti veri e a loro si deve rispetto. Democrazia e Informazione marciano paralleli. Chi non ama la prima, disprezzerà la seconda. Lo abbiamo compreso da tempo.
In molti conoscono Joseph Roth, il meraviglioso scrittore austro-ungarico che nei suoi romanzi ha illustrato il declino dell’Europa fra le due guerre mondiali e il dissolversi della Mittle-Europa. La sua vita è stata una “Fuga senza Fine” (come quella in uno dei suoi capolavori). Dopo essere stato messo all’indice come “ebreo degenerato” dalla dittatura hitleriana, morì a Parigi dove trovò rifugio. Il suo cuore non resse al dolore di essere stato cacciato dalla sua patria, di sapere i suoi libri bruciati, di dover chiedere la carità agli amici per sopravvivere, di anticipare con lucida preveggenza la catastrofe che stava per sconvolgere l’Europa. In pochi sanno, però, che Roth iniziò a scrivere come giornalista nelle più importanti testate dell’epoca e negli anni Venti iniziò a collaborare con il quotidiano “Frankfurter Zeitung” come inviato all’estero. Andrebbero riletti con attenzione i suoi reportage dalla neonata Unione Sovietica e sulla Rivoluzione bolscevica tradita.
Una capacità di analisi che ancora oggi ci stupisce per la lettura dei fatti che scorrevano sotto i suoi occhi attenti e che poi si trasformò nell’oppressione stalinista. La Russia di oggi la possiamo comprendere anche attraverso il suo” Viaggio in Russia” del 1926. Nell’autunno del 1928, Roth si recò in Italia per spiegare ai lettori tedeschi il paese di Mussolini. Una corrispondenza singolare e impietosa, in altalena fra umorismo e inquietudine. Annotava: “Gli editori incessantemente minacciati si vedono costretti a vendere i loro giornali. I compratori sono prestanome del governo, la cui mano sinistra offre nuovamente quello che ha preso la destra. Finalmente non esiste più una casa editrice di opposizione. Ma per essere sicuro, il fascismo decide che ogni collaboratore di giornali e riviste deve far parte del sindacato dei giornalisti, ovviamente del sindacato fascista. E’ vietata l’ammissione di un giornalista che abbia esercitato un’azione contrastante agli interessi della Nazione. Ciò vuol anche dire che lo Stato dispone delle tipografie, come il tribunale dispone della cauzione per il rilascio temporaneo di un detenuto in carcere preventivo”.
Le corrispondenze di Roth sono raccolte in un volumetto illuminante per capire il nostro presente. “La quarta Italia” (Castelvecchi ed.) offre spunti sorprendenti, sarcastici, come: “Sono infantili, sulle fontane, ai bordi dei manifesti, sui muri degli orinatoi, i disegni primitivi che ritraggono Mussolini in una posa cesarea. E serio sembra essere solo l’olio di ricino. Tutta la storia del presente, in quanto rappresentata da Mussolini, è come un libro illustrato. Ormai conosco il profilo destro e quello sinistro del dittatore. Conosco le sue mani, il suo cut-away, la sua uniforme, i suoi guanti, i suoi cappelli, le sue scarpe. Il suo avanzare solenne, sorridere, elargire, entrare, salutare con un cenno della mano e fermarsi. E di contro l’assenza di uno sbadiglio, il fare una genuflessione, togliersi il panciotto. L’ottimismo che domina il volto delle strade italiane è talmente incondizionato, così candido quasi da far sospettare che sia obbligatorio”.
Naturali le conclusioni: “Quindi il giornalista italiano così controllato non è più un giornalista. Non solo non può scrivere quello che vuole, ma deve anche essere plasmato dalla teoria in modo da voler scrivere qualcosa di vietato. Non è un critico ma un’eco. Il fascismo ha introdotto l’ottimismo obbligato”.
In queste descrizioni del tempo che fu, ritroviamo molto dell’oggi. C’è tanto lavoro da fare per il giornalismo democratico e obiettivo, tanto da scrivere e portare alla luce. Proprio oggi che per sviare l’attenzione sui gravi problemi etici ed economici, spingendo il Paese nell’abisso, si accendono i fari su una nave di poveri cristi in balia dei flutti, mentre tendono le mani disperate, invocando aiuto. E intanto, chi li respinge inganna l’opinione pubblica con la falsa accusa che sarebbero quei 50 disgraziati di colore nero a corrompere la nostra presunta anima bianca.