Il 28 gennaio 1994 avevo ventiquattro anni, una tesi sulla Filosofia della liberazione da concludere, un paio di collaborazioni pubblicistiche in corso e un futuro davanti: fu quella sera — mentre scorrevano le immagini provenienti da Mostar, mentre la guerra che da più parti si cercava di rimuovere entrava in casa e diventava improvvisamente vicina, cominciava a riguardarci — che decisi che avrei fatto la giornalista. Per provare a servire la verità, raccontandola, per aiutare le persone a scegliere da che parte stare, per fare da antidoto alle rimozioni collettive e ai depistaggi, perché nessuno possa dire che non sapeva, perché i cittadini abbiano sempre a disposizione, come diceva Pulitzer, uno strumento «contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo». Non per ambizioni eroiche ma per un atto necessario, doveroso, richiesto dal mestiere, funzionale alla democrazia e alla pace.
Allora come oggi la guerra sembra non riguardarci mai e quelli che provano a prenderla sul serio “se la sono andata a cercare”. Ma allora come oggi la guerra bussa alle nostre porte e alle nostre coscienze e abbiamo due possibili risposte: o il me ne frego fascista o l’I care milaniano, senza mai dimenticare che il prezzo da pagare può essere altissimo e il primo rischio che si corre è quello di non essere compresi. Non a caso mons. Lorenzo Bellomi, vescovo di Trieste, celebrando i funerali di Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, i tre giornalisti Rai uccisi a Mostar Est da una granata mentre giravano le riprese per un servizio sui bambini senza nome, per prima cosa si chiese: «Saranno capiti?». Noi per sapere che lo sono stati basta che pensiamo alla Fondazione che porta il loro nome e che in questi primi venticinque anni si è presa cura di oltre settecento bambini provenienti da zone in conflitto, ma in un certo senso lo sapevamo da subito, guardando la folla di triestini che facevano la fila per portare un saluto alla camera ardente allestita presso la sede regionale della Rai e che successivamente riempirono la cattedrale di San Giusto per le esequie. Da quel momento — hanno ricordato stamattina nella Sala del Consiglio comunale a Trieste il direttore della sede regionale della Rai Guido Corso e il presidente del sindacato dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia Carlo Muscatello — nulla sarebbe stato più come prima né per i colleghi del servizio pubblico né per il piccolo mondo dell’informazione triestina: il loro impegno ha rappresentato un ulteriore stimolo per tutti, a cominciare dalle famiglie, che come ha detto Beppe Giulietti, presidente della Federazione Nazionale della Stampa, «hanno usato il dolore per allargarlo al dolore degli altri e trasformarlo in azione», facendo rivivere Marco Saša e Dario nei volti dei tantissimi bambini di cui la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin si è fatta carico, senza chiedere il passaporto, senza guardare il colore della pelle. Bambini con un volto e un nome, impossibili da dimenticare: come Muhammad, 11 anni, libanese, arrivato a Trieste grazie all’interessamento di alcuni soldati italiani per una grave forma di anemia; come Danielys, 9 anni, venezuelana, in attesa di un trapianto di midollo; come Hatal, 12 anni, iracheno yazida, affetto da emofilia. Solo per citarne alcuni.
In fondo la Fondazione non fa altro che continuare il lavoro dei giornalisti triestini interrotto da una granata a Mostar il 28 gennaio di 25 anni fa: realizzare un servizio sui bambini senza nome per umanizzare un conflitto che si tendeva a dimenticare. Dare loro un nome, un volto, sarebbe servito a ricordare a noi appollaiati sulle nostre comode poltrone, pronti a rimuovere la guerra con un tasto del telecomando, che in Bosnia come in tanti altri luoghi allora come oggi si continuava a morire. Ricordare per costruire: questa è stata la scelta all’origine della Fondazione, che scelse e sceglie di aiutare i piccoli a casa nostra, realizzando dei ponti in sostituzione di quelli che erano e sono saltati. «Il nostro ruolo» ha detto Vittorio di Trapani, segretario nazionale dell’Usigrai, «non è quello di chiudere porti, ma di costruire ponti. Questa è la Rai che onora la Costituzione». Un riferimento all’attualità sposato da Daniela Corfini Schifani Luchetta, moglie di Marco, che ha dichiarato di non poter accettare che si commemorino le vicende passate dimenticando il presente: per onorarli, ha detto, dobbiamo chiederci a cosa può portare la mancanza di solidarietà. E prendersi sulle spalle le loro inchieste, suggerisce Giulietti, che ricorda i giornalisti ammazzati, quelli minacciati e quelli che vivono sotto scorta. Sempre per lo stesso motivo e con lo stesso obiettivo: garantirci la libertà.