Giulio Andretti, forse, dice poco a chi è nato quando la Prima Repubblica si era ormai conclusa e della sua storia e delle sue vicende erano rimasti solo echi lontani.
Chi era Andreotti, di cui oggi ricorre il centenario della nascita? Un grande scrittore e un politico di razza, non c’è dubbio, scaltro e spregiudicato come pochi, l’uomo dei misteri e dei segreti, dei rapporti non proprio limpidi con ambienti non proprio consoni ad un personaggio del suo livello, delle relazioni tentacolari e delle garanzie offerte al Vaticano e agli Stati Uniti.
Il Divo Giulio ha racchiuso in sé l’anima di cinquant’anni di storia italiana, i suoi aspetti positivi, perché ce ne sono stati, e i suoi innumerevoli aspetti negativi, i condizionamenti subiti dal nostro Paese e il suo declino morale.
È stato un uomo centrale, persino al di là della sua astuzia e dei suoi meriti, un protagonista irrinunciabile, l’incarnazione stessa del governo e delle sue opacità, il perno di una stagione lunga mezzo secolo e la memoria lucida della sua narrazione successiva.
Per la politica italiana, il Novecento, noto anche come “Secolo breve” e “Secolo americano”, è stato sicuramente il “Secolo andreattiano”: una definizione che ci riconduce alle altre due e ci fa capire la collocazione internazionale del nostro Paese nonché le conseguenze che ha avuto su di noi il crollo del Muro di Berlino.
Andreotti come punto di caduta, dunque, di equilibri delicatissimi e talvolta torbidi, dotato di un senso dell’umorismo esilarante e spesso molto cinico, competente e sostanzialmente sprezzante, esponente di quella romanità papalina che sa di eterno e della Ciociaria conservatrice, tuttora segnata, irrimediabilmente, dalla barbarie che fu costretta a subire durante la guerra.
L’aspetto più straziante dell’intera vicenda, di un uomo e di un’epoca non certo memorabile, è che oggi siamo costretti a rimpiangerli.
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