Meno uno! Tra un anno a questa data ricorreranno i Cento Anni dalla nascita di Federico Fellini, ed è subito aria di festa. Giungono notizie di mostre, pubblicazioni, rassegne, convegni, manifestazioni e iniziative di ogni genere in onore dell’artista contemporaneo italiano più conosciuto nel mondo. Ma forse non altrettanto amato in patria, dove dietro il velo dell’ammirazione universale continua a serpeggiare una incomprensibile diffidenza, una sorda ostilità. Tutti lo negheranno, perché Fellini è Fellini, indiscutibile, eppure sotto sotto… Sembra quasi un paradosso, è come se la sua fama ne offuscasse in qualche modo il valore, la vera grandezza.
Fellini è una figura talmente nota che ognuno crede di conoscerlo, sebbene in pochi abbiano familiarità con i suoi film, se si escludono i successi popolari come I Vitelloni, La Dolce Vita, Amarcord. Ci sono alcuni che affermano di amare soltanto le prime prove, perché meno intellettuali; altri, più acculturati, incensano Otto e Mezzo, Satyricon, Casanova, spesso senza averli visti, e in ogni caso senza sforzarsi di approfondirne la complessità. Altri ancora rifiutano in blocco tutta l’ultima produzione liquidandola come manierista, ridondante, concettosa. Non lo dicono apertamente, non si azzardano per non apparire superficiali, ma lo pensano e lo fanno capire. E se appena incontrano un complice, affondano la lama con acido compiacimento o simulato rammarico: era un regista finito, nessuno voleva più finanziarlo! Affermazioni avventate, da rotocalco scandalistico, che passando di bocca in bocca si impalcano a stanche verità. Se solo sospettassero quanto grande sia stato il genio di cui parlano con tanta accidiosa noncuranza!
Dall’uscita di Amarcord, suo quarto Premio Oscar, a Fellini sono state rivolte almeno dieci richieste, miliardarie, per girarne una seconda puntata, o come si dice in gergo americano, il sequel. Proposte alle quali Federico si è sempre sottratto tra il divertito e l’infastidito: “Io il mio film l’ho fatto, ci pensino altri.” Non provava alcuno stimolo a soffermarsi per brama di guadagno sul già realizzato; il suo ingegno era già oltre, stava elaborando progetti capaci di anticipare gli scenari in cui eravamo proiettati, e a volte già immersi, senza neppure accorgerci e che da lì a poco avrebbero costituito l’ unico orizzonte in cui dibatterci alla cieca.
Non gli davano i soldi? Una Major Company di Hollywood ogni anno con regolarità gli rispediva un contratto sempre più voluminoso, compatto e pesante come l’elenco telefonico di Roma, per convincerlo a portare sullo schermo l’Inferno di Dante. Gli offrivano tanto di quel denaro che Fellini avrebbe potuto vivere non una ma dieci vite da nababbo senza fare più niente. E non bastava! Nella bozza di accordo erano previste le spese totalmente coperte per due anni di sopralluoghi in giro per il mondo a cercare le location più adatte, crateri di vulcani, deserti, ghiacciai eterni, abissi sottomarini; spedizioni da effettuare con qualsiasi “mezzo conosciuto o ancora da scoprire”. Il regista aveva facoltà di portare con sé tutti i collaboratori che credeva necessari, e al termine dei due anni poteva tranquillamente rinunciare al progetto senza alcuna penalità. Un’offerta da Mille e una notte che gli avvocati, ingolositi, lo esortavano ad accettare ad ogni costo.
Di fronte a tanta munificenza Federico aveva avvertito il dovere di prendere un aereo e recarsi in America a spiegare di persona le ragioni della sua rinuncia. Un episodio che ho raccontato altre volte; di fronte allo stato maggiore della Major Company aveva spiegato che un’impresa di quel genere avrebbe potuto realizzarla a Cinecittà, nel suo Teatro 5, con “carta, colla e forbici” come aveva sempre fatto. La sua visione era di “un infernetto brullo, scomodo, stretto, obliquo, piatto”, nella suggestione di Luca Signorelli; e il capo della produzione, che “fumava un sigaro grande come una mortadella”, lo aveva subito rassicurato: “Noi faremo a Luca Signorelli un’offerta che non potrà rifiutare!”.
Quanto si divertiva Federico a riferire l’incontro! Anzi aveva subito concepito un film “sulla figura del Produttore Cinematografico” in cui avrebbe raccontato perché secondo lui era impossibile trasporre in un film la Divina Commedia! C’era già pronto il soggetto, andai personalmente a parlarne con Angelo Guglielmi, carismatico direttore di RAI 3, per ipotizzare insieme a lui un assetto produttivo finalizzato all’impresa. S’era messo di mezzo anche Giancarlo Santalmassi, un giornalista intelligente e ardimentoso, pazzo per Fellini; e così della mirabolante impresa americana con milioni di dollari a disposizione, non se ne parlò più.
Fellini era un artista che obbediva esclusivamente alla propria vocazione e nessun calcolo di interesse avrebbe mai spostato dalle idee che aveva ben chiare in testa. Incorruttibile suo malgrado, perché segnato dalla Grazia!
Ed era proprio questo lato del carattere che dava fastidio, perché l’uomo sfuggiva a qualsiasi accaparramento: non era in vendita, nessuno riusciva a irretirlo, a piegarlo. Che irritazione, eh?, nell’Italia dei voltagabbana, del volemose bene, di una mano lava l’altra!.
Considerato un regista ‘spiritualista’ fino a tutti gli anni Cinquanta (Premio Oscar a La strada e a Le notti di Cabiria), Fellini era sbandierato dalla Chiesa come un suo vessillifero e denigrato quindi per preconcetto dal Partito Comunista. Ma poi con La Dolce Vita s’era attirato l’anatema della Curia Romana ed era diventato il paladino della sinistra laica e anticlericale. Salvo cadere di nuovo in sospetto della cupola rossa e materialista per i suoi film psicanalitici e troppo individualisti, borghesi, estetizzanti, estranei alla lotta sociale (Otto e mezzo, Giulietta degli Spiriti, Toby Dammit). La tregua arrivò con Amarcord, al cospetto di una rappresentazione grottesca e tragicomica del fascismo che nessun altro autore italiano era stato in grado di concepire.
Sandro Pertini lo invitava a pranzo al Quirinale, come fosse un vecchio compagno di scuola: “Vieni, oggi c’è il riso, lo so che ti piace!” E quando Fellini dopo l’assassinio di Aldo Moro aveva realizzato in tre settimane e mezzo Prova d’Orchestra, lui abituato a lunghi mesi di preparazione e di set, il Presidente socialista chiamò a raccolta le due camere del parlamento nel Palazzo della Presidenza della Repubblica per assistere a quel capolavoro sulla sciagura del terrorismo che stava demolendo il Paese. Da quel giorno tutti i film di Federico ebbero la loro prima al Quirinale, accolti al pari di un evento nazionale!
In seguito la sua posizione di aperto contrasto con Bettino Craxi e Silvio Berlusconi lo riportò immediatamente in auge presso la sinistra italiana. Enrico Berliguer lo amava, e cercavano la sua amicizia anche Antonello Trombadori Giorgio Amendola, Fausto Bertinotti; come del resto sul fronte opposto Ugo La Malfa, Mario Segni e l’onnipotente Giulio Andreotti, che gli proponeva amabilmente la presidenza onoraria della Società Dante Alighieri.
Dopo lo scontro giudiziario con il Cavaliere, che aveva visto Federico perdente nella sua accorata battaglia per salvare i film dallo scempio televisivo della pubblicità (“Non si interrompe un’emozione!”, aveva gridato al vento) il padrone della “Fininvest” aveva tentato di attrarlo nella sua orbita, e tramite i buoni uffici di Sergio Zavoli, si offriva di produrgli qualsiasi film avesse voluto tramite la Medusa Cinematografica, dietro le cui porte facevano già la coda quasi tutti i registi ‘politicamente impegnati’. Il Cavaliere aveva mandato avanti lo stilista Nicola Trussardi quale possibile finanziatore di una nuova opera per lo schermo, e quell’anno, al Festival di Venezia, durante la cerimonia di assegnazione del Leone d’Oro alla Carriera, Fellini ritirando il premio in diretta televisiva sul palcoscenico del Lido, aveva lasciato cadere la sua tagliente risposta: “Non mi faccio presentare il film da un sarto!”
Nel frattempo la Francia gli conferiva la Legion d’Onore per mano del ministro della cultura Jack Lang, suo irriducibile ammiratore.
Federico procedeva dritto per la sua strada. Aveva girato Ginger e Fred contro l’imbarbarimento dello strapotere televisivo. E volete sapere una cosa? Enrico Manca, socialista eretico e in quegli anni presidente della RAI, aveva aderito di slancio a una sua precisa richiesta e, in atto di ossequio, aveva trasmesso il film sul primo canale, in prima serata, senza alcuna interruzione pubblicitaria!
Fellini aveva vinto per tutti noi, per l’Italia intera, e nel successivo film Intervista, aveva girato un finale amaro e stupefacente, con i pellerossa a cavallo che prendevano d’assalto il fragile fortino di cinematografari impugnando antenne televisive al posto delle lance.
Infine ne La Voce della Luna, la sua opera testamentaria, nella sequenza del banchetto matrimoniale aveva fatto dipingere Berlusconi in divisa da milanista sulla porta a vento della cucina del ristorante, in modo che i camerieri, entrando e uscendo dal salone, lo prendessero ogni volta a calci. In quello stesso anno 1990, il Giappone gli assegnava il Premio dell’Imperatore, il massimo riconoscimento nel mondo orientale.
All’estero Fellini continua ad essere la bandiera della nostra cultura, in Italia ne ha rappresentato il baluardo fino all’ultimo dei suoi giorni. Le nuove generazioni di autori, a qualsiasi credo politico o tendenza appartenessero, sanno di dovergli in qualche modo l’esistenza. Da Nanni Moretti che si recava a trovarlo come si consulta un oracolo (“Caro Diario” non avrebbe visto la luce senza il “lasciapassare” ideale di Federico), a Paolo Sorrentino, Premio Oscar per La grande bellezza, nella quale ha voluto rendere apertamente omaggio all’artista di Rimini raccogliendone il testimone per un cinema senza aggettivi e senza servitù.
Federico Fellini è l’autore cinematografico attorno al cui magistero, tra un anno, potremmo tutti insieme ritrovare l’orgoglio di essere italiani, nella presente, delicata, congiuntura del nostro Paese in cui le due maggiori formazioni politiche, unite in una maggioranza parlamentare mai così vasta, si sono addossati l’onere e responsabilità del generale rinnovamento. Il consenso di tanti elettori che hanno dichiarato nelle urne di voler a tutti i costi superare la logica delle oligarchie al potere, impegna tutti noi a un salto di qualità che non può avvenire se non attraverso il rilancio della cultura. In essa si fonda l’identità di una nazione come l’Italia, gran parte della sua ricchezza e interamente la sua libertà.
I film di Fellini sono la più luminosa espressione di questi valore. Se la sua fama non accenna a tramontare, dentro e fuori dei nostri confini, è perché il suo cinema ci ha affidato un lascito preziosissimo e inestinguibile. La sua opera è ancora tutta da studiare, tutta da approfondire: tutta da salvaguardare! E’ora che torni al centro del dibattito artistico, civile, culturale. Perdere tale occasione, che si ripresenterà soltanto tra un altro secolo, sarebbe un ulteriore impoverimento per l’Italia.