La grandezza di De André, oltre che nella sua arte, da tempo considerata universale, risiede nel fatto che a vent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta l’11 gennaio 1999, nessuno se lo sia potuto intestare.
Perché Fabrizio non aveva partito, corrente o gruppo di riferimento: era la sua musica, la sua poesia, la sua bellezza interiore ma, soprattutto, era la sua anarchia.
Faber cantava gli ultimi, i deboli, gli oppressi, gli emarginati, vedeva meraviglia nelle prostitute dei caruggi di Genova e a una di esse, assassinata in giovanissima età, ha dedicato una delle sue canzoni più struggenti, paragonando Marinella a una rosa, destinata per questo ad essere meravigliosa ed effimera, incompatibile con la brutalità dell’uomo di oggi e di sempre.
E poi sfidava l’ordine costituito, le convenzioni, i costumi, i rigidi schemi di un’Italia ancora ipocrita e bigotta, la stessa che indusse i “signori benpensanti” a bocciare il capolavoro di Tenco a Sanremo, causandone il suicidio, la stessa che giudica senza sapere, che punta sempre il dito, che umilia, offende, condanna e non concede mai alcuna possibilità d’appello se non a chi è già inserito in un preciso sistema di potere.
De André seppe chinarsi persino sulla barbarie camorristica di Cutolo, con versi memorabili e un’interpretazione ironica e, al tempo stesso, struggente di un’esistenza segnata dalla malavita, denunciando anche le storture del sistema carcerario e i drammatici episodi di favoritismo nonché di piccola e grande corruzione che vi si annidano.
Remava, Faber, in direzione ostinata e contraria: la stessa di don Gallo e di altri geniacci genovesi come Villaggio, Lauzi e lo stesso Luigi Tenco, la stessa del Grillo che fu, la stessa di quella minuscola parte d’Italia che non è mai appartenuta a nessuna corte e a nessun potentato e per questo ha pagato un prezzo altissimo, in un paese in cui da sempre prevale il conformismo e si cerca di apporre a chiunque un’etichetta.
Fabrizio, invece, apparteneva a se stesso e ai pochi che gli volevano veramente bene, ai pochi che lo hanno amato e capito e poi al suo pubblico, senza che nessuno possa strumentalizzare una sua parola, un suo pensiero, un suo graffio alla società del compromesso e dell’asservimento, delle frasi scelte per compiacere e delle analisi e delle riflessioni dettate dalla convenienza.
Faber non è mai convenuto a nessuno, non conviene tuttora, tanto che, quando lo si ricorda, se ne fa un santino, guardandosi bene dal dire che la società attuale gli farebbe ancora più ribrezzo e che oggi i suoi versi volerebbero a prendersi cura dei nuovi ultimi, dei nuovi emarginati, dei migranti in fuga dall’Africa in fiamme, di chi si suicida in carcere, delle donne vittime di tratta, delle periferie abbandonate a se stesse e forse persino di chi sfoga in piazza la sua rabbia senza futuro.
L’aspetto tragicomico di tante commemorazioni è la pretesa autoassolutoria di chi le compie, più per darsi un tono che perché ci creda davvero. Ma la condanna di Faber resta, al pari del suo genio, e noi siamo tutti coinvolti, vent’anni dopo, in un abisso nel quale la sua assenza è straziante ma al contempo doverosa, visto che questa è una società in cui persino i libertari e gli scapigliati di un tempo non tollerano che qualcuno decida di cantare fuori dal coro. Fabrizio se ne è andato prima, lasciando che la sua voce ribelle parlasse eternamente per lui.
P.S. Addio a Guido Quaranta, colonna dell’Espresso e principe dei cronisti politici. Al cospetto di tanti soloni ignoranti, ci mancherà la sua competente irriverenza.
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