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Vittorio Pozzo: l’eroe di un tempo d’orrore

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Amava correre, inseguire i propri sogni, poi si aggiunse il pallone e fu magia, l’inizio di una leggenda destinata a durare in eterno.
Il torinese Vittorio Pozzo era un rude atleta di fine Ottocento, classe 1886, un uomo d’acciaio, con una tempra e un coraggio oggi sconosciuti, uno che si allenava con passione e che, a neanche a trent’anni, era già commissario tecnico della Nazionale, anche se la sua prima esperienza in questo ruolo fu tutt’altro che esaltante. Vi sarebbe tornato molti anni dopo, su richiesta del gerarca Leandro Arpinati, presidente della FIGC e nume tutelare del Bologna “che tremare il mondo fa”, e allora sì che il gruppo di giocatori a sua disposizione era pronto a conquistare la vetta del mondo.
Due titoli Mondiali, nel ’34 a Roma e nel ’38 a Parigi, battendo la formidabile scuola danubiana di Cecoslovacchia e Ungheria, e un titolo olimpico, a Berlino, nel ’36, avendo la meglio sull’Austria, massimo vanto della suddetta scuola, alla guida di un gruppo di universitari di belle speranze, tre dei quali (Foni, Rava e Locatelli), due anni dopo, avrebbero contribuito al trionfo della Nazionale in terra di Francia.
Pozzo, uomo severo ma giusto, colto, dotato di una penna splendida, non anti-fascista ma nemmeno al servizio del regime, in grado di tenere i suoi ragazzi al riparo dalle inevitabili strumentalizzazioni mussoliniane e di farli rendere al meglio nonostante fossimo alla vigilia della peggior catastrofe della storia dell’umanità.
Pozzo, che nella Prima guerra mondiale era stato un tenente degli alpini e aveva conservato una certa formazione militare, mai domo, capace di dirigere dalla panchina con lo stesso piglio e la stessa fierezza con cui aveva affrontato l’inferno delle trincee, non arrendendosi di fronte a nulla e difendendo a spada tratta la propria scelta di convocare gli oriundi. “Se possono morire per l’Italia, possono anche giocare per l’Italia” era il suo motto, e nessuno poté dire nulla a una leggenda che era tale già prima di salire sulla vetta del mondo e che, da quel momento in poi, è diventato un simbolo, un esempio, un punto di riferimento ben al di là dei confini del calcio e dello sport.
Quando, come ultimo atto della sua epopea azzurra, nel ’49, fu chiamato a riconoscere le salme del Grande Torino, lui che del Toro era stato, nel 1906, uno dei fondatori, scrisse l’indomani sulla Stampa: “Scomparso, bruciato, polverizzato. Una squadra che muore, tutta assieme, al completo, con tutti i titolari, con le sue riserve, col suo massaggiatore, coi suoi tecnici, coi suoi dirigenti, coi suoi commentatori. Come uno di quei plotoni di arditi che, nella guerra, uscivano dalla trincea, coi loro ufficiali, al completo, e non ritornava nessuno, al completo. È morto in azione. Tornava da una delle sue solite spedizioni all’estero, dove si era recato in rappresentanza del nome dello sport italiano. Aveva presa la via del cielo per tornare più presto, per far fronte agli impegni di campionato. Un urto terribile, uno schianto – ai piedi di una chiesa, di una basilica addirittura – una gran fiammata. E poi più nulla. Il silenzio della morte. Era la squadra Campione d’Italia”.
Se ne andò il 21 dicembre 1968, all’età di ottantadue anni, potendo finalmente riabbracciare i suoi ragazzi, mito tra i miti, immortale tra gli immortali, un padre costretto a vivere l’immenso dolore di seppellire i propri figli. Mezzo secolo fa: non lo dimenticheremo mai.
P.S. Ha da poco compiuto ottant’anni Eugenio Fascetti, di recente autore di un libro intitolato “Elogio del libero” in cui racconta la sua vita. Complimenti e grazie a un uomo e a uno sportivo che libero, ovunque sia andato, ha saputo esserlo davvero.
P.S. 2 Buon compleanno anche alla FIGC, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, che quest’anno compie centoventi anni. Mi auguro di cuore che tornino presto tempi, e dirigenti, migliori.

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