Un numero 10 sempre in panchina

0 0

di Lucio Luca

lucio-luca

Lucio Luca, giornalista di Repubblica e autore del libro “L’altro giorno ho fatto quarant’anni” (Laurana editore)

E invece, dopo aver rischiato l’infarto per garantire l’uscita in edicola del giornale, in autunno era arrivato il benservito. “Sono passati tre mesi dal terremoto a Cosenza — scrissi nel mio diario — Risultato? Estate orribile, niente vacanze, stress raddoppiato. E sono pure finito nel libro nero degli editori senza nemmeno un grazie. Per ora ho salvato il lavoro ma non so quanto può durare”.
Fu Rosa, di notte, a darmi la notizia che aspettavamo da giorni.
“Alessà, scusa l’ora, ma ho una cosa importante da dirti. Non potevo aspettare. Pierino ha scelto il nuovo direttore”.
“Cazzo, per chiamarmi alle tre del mattino sarà come minimo Eugenio Scalfari…”, avevo provato a sdrammatizzare.
“Non dire stronzate, Alessandro. Il direttore è quel comunista radical chic, quello che sta sempre in tv a pontificare su tutto. Tu simpaticamente lo chiami Disossato…”
Non ci voleva molto a capire che non sarebbe stata una scelta propizia. Per il giornale, soprattutto, e poi anche per me. Purtroppo non mi ero sbagliato. E quando il nuovo direttore si era presentato alla redazione, giacca di cachemire e cappello all’Humphrey Bogart malgrado un caldo torrido che non si respirava, avevamo capito subito a cosa stavamo andando incontro.
Il mio amico Pietro, uno che ha il suo bel carattere di merda ma è una gran persona per bene, aveva provato a spiegare al direttore che se c’era ancora un giornale lo doveva a un gruppo di sfigati che si erano messi in testa di salvare il proprio posto di lavoro. Mi aveva anche indicato: “Il giornale che tu raccogli l’ha salvato Alessandro, quel signore lì in fondo. Noi gli abbiamo dato una mano, certo, ma senza Alessandro oggi non saremmo qui. Nient’altro”.
Voleva essere un’investitura, non servì a nulla. Il direttore si era portato i suoi, l’idea di farmi non dico caporedattore ma almeno caposervizio non l’aveva sfiorato nemmeno di striscio. Non si fidava di uno come me, senza padroni, troppo comunista forse. Persino l’editore ci aveva voluto bagnare il pane: “Alessà, dimmi una cosa — mi aveva detto un pomeriggio incrociandomi davanti alla sua stanza — Ma perché tu, che sei un numero 10 del giornalismo, alla fine te la prendi sempre in quel posto? Sei un numero 10, ma ci sarà un motivo se tutti i direttori ti mettono in panchina. Ci hai mai pensato?”.
“E certo, Pierino. Sono uno che rompe i coglioni, mica è una novità”.
Pierino stava provando a farmi il trappolone, come sempre. In sostanza, mi offriva una promozione – fare il caposervizio di Cosenza – ma in cambio avrei dovuto fornirgli una lista di colleghi da cacciare via. Per risparmiare, ovviamente. Cioè, aveva chiesto a me di fare una lista di colleghi da mandare via. Gente che per tre mesi di fila non aveva preso un giorno libero e si era massacrata la vita solo per tenere in piedi il suo giornale.
L’avevo mandato a quel paese, e anzi ero riuscito a contenermi. Certo, mi ero giocato la promozione. Ma non era tanto quello il problema. Per la prima volta mi ero sentito estraneo in casa mia. Il giornale che avevo fondato e che avevo difeso lavorando dalla mattina alla sera, non mi apparteneva più. Come quando la tua donna ti lascia. Anzi, peggio.
(8. continua)

Da mafie


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21