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Un cronista scomodo attacca i muri dell’omertà criminale

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“Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”, scriveva Brecht. Tuttavia, senza voler offendere il grande drammaturgo, un paese come l’Italia ne ha proprio urgenza. Infatti, di fronte all’angosciante arretramento delle garanzie democratiche e allo strapotere di poteri visibili o occulti spesso estranei alle regole e alla legalità, i rischi immanenti sono la resa, la sottomissione, la complicità. E l’eroe di cui c’è bisogno non è un Superman o un essere alieno, bensì una persona coraggiosa e caparbia: ma “normale”.

Come dovrebbe essere normale fare con serietà il mestiere di giornalista, nella cui deontologia profonda sta l’essere il cane da guardia contro storture e prepotenze: “intermediando” in modo critico con la società.

Un esempio eccelso dell’eroismo di chi avrebbe magari sognato per sé una routine più consueta viene da Paolo Borrometi, del quale è uscito un libro di racconto e testimonianza straordinario (“Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile”, Milano, Solferino editore, 2018, pp. 264). L’autore iniziò a scrivere sul “Giornale di Sicilia” per poi fondare il sito di informazione “La Spia”. Oggi è impegnato a “Tv2000” e collabora con l’agenzia “Agi”. Presidente dell’associazione “Articolo21” collabora pure con “Libera”, Fondazione Caponnetto e Cgil. Ecco, il bel volume, scritto con una prosa capace di procedere con un ritmo avvolgente e persino audiovisivo nel disegnare luoghi ed avvenimenti, ci parla della gioventù e dell’acre maturità di un protagonista della resilienza e dell’impegno civile. Il luogo di nascita, Ragusa, e la città di vita Modica sono il contesto in cui si svolge l’esistenza di un cronista che mette occhi e orecchie nei lati oscuri di province –Ragusa e Siracusa- considerate dalla vulgata un’area babba: ingenua e tranquilla. Contrapposta all’inferno della sperta, intraprendente, furba, violenta.

L’esistenza di Borrometi ha un drammatico punto di svolta il 16 aprile del 2016, dopo un agguato terribile di “due sagome nere” che presero a calci un corpo indifeso fino a massacrarlo: spalla destra fratturata in più punti, con danni purtroppo permanenti. La vendetta aveva un’origine ben precisa. “La Spia.it” stava indagando sull’inquinamento ambientale nella zona di Vittoria e sul malaffare che investiva Scicli, la Vigata di Montalbano. Indifferenza, isolamento, persino un chiaro tentativo di delegittimazione furono il seguito. E sì, perché la classica tecnica manipolatoria usata da parte delle mafie è sempre stata volta a descrivere la vittima come visionaria e incosciente, o a attribuire il tutto a questione di fimmine. Eversione maschilista a go go.

Il gravissimo accidente non solo non attenua la combattività e la coerenza di Paolo, ma la fortificano facendone via via un riferimento etico per l’intera categoria. Contro quel giornalismo subalterno o complice che ha segnato nel tempo rilevanti settori dell’informazione sui poteri criminali. Borrometi, anzi, è una delle declinazioni migliori di un’informazione mai doma e caparbiamente indipendente, capace di mettere a rischio l0incolumità personale. Per difendere la sacralità laica della verità. E di pericoli fisici nel libro si parla, quasi un sottotesto che attraversa in filigrana le pagine. Fino all’ora x della minaccia di omicidio, Il tremendo 18 aprile del 2018. Quando, di fronte alla macchinetta del caffè della sede dell’Agi, il nostro viene a conoscenza della pagina 8 del provvedimento del gip del tribunale di Catania teso all’arresto del braccio destro del capomafia di Pachino Salvatore Giuliano, vale a dire Giuseppe Vizzini in compagnia di alcuni suoi familiari e di Giovanni Aprile, altro esponente di rilievo della mafia locale. “Il Borrometi poco ne ha di vivere…ogni tanto un murticeddu (un morto) vedi che serve”. Per fortuna in tale vicenda lo stato funzionò e l’attentato risalente ad un paio di anni prima fu sventato. Da allora una scorta di polizia vigila strettamente sull’incolumità del “giornalista scomodo”. E una scorta “mediatica”, organizzata dalla federazione della stampa e dall’associazione “Articolo21”, si muove in parallelo, partecipando anche alle udienze dei processi. Posti inquietanti, dove la paura inesorabilmente prende anche un eroe.

L’efficace narrazione contenuta nel volume è quasi un’autobiografia della nazione, nella sua componente criminosa come in quella omertosa o qualunquista, che sosteneva fino agli anni sessanta-settanta che la mafia non c’è, essendo una mera costruzione immaginaria. Ci vollero le numerosissime vittime, cui Borrometi rende sincero omaggio, ricordando ad esempio –tra gli altri – Giovanni Spampinato, eccellente giornalista della porta accanto. Ovviamente, sullo sfondo stanno i personaggi entrati nel mito della resistenza e della lotta antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino al presidente del Parco delle Nebridi Giuseppe Antoci sfuggito ad un attentato nel 2016. E, malgrado questo, defenestrato dalla nuova giunta regionale.

Il libro è leggibile e brillante come un romanzo giallo, quando descrive l’”economia politica” del pomodorino, la straordinaria risorsa della Sicilia orientale, che corre verso i mercati con l’intesa delle principali centrali della criminalità. E che ha come premesse produttive il caporalato, lo sfruttamento schiavistico dei migranti e degli stessi piccoli proprietari terrieri cui va un infimo guadagno, al di sotto del costo reale. Per poi aprire lo sguardo verso altri business, toccando il tesoro della raffinazione del petrolio, laddove si capisce quanto il malaffare sia entrato prepotentemente negli affari del nord e nei grandi traffici del capitale.
Scorci d’autore, che sembrano scene del “Padrino”. Le nozze faraoniche dei clan, perché matrimoni e funerali segnano la fisiologia del comando. O la cena con gli imprenditori che contano su uno yacht attraccato in un banale porticciolo. Per finire con la toccante lettera ai giovani studenti, un vero programma di politica, quella buona.


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