Tre mesi fa scrivevo di Max Zirngast, un giornalista trentenne austriaco arrestato in Turchia.
Tre mesi, 104 giorni per la precisione, che questo giovane collega ha trascorso dietro le sbarre e senza sapere di cosa sia accusato. Poco prima delle 6:00 dell’11 settembre, la polizia anti-terrorismo turca si presentò alla porta del suo appartamento ad Ankara con un mandato di cattura. Frugarono tra i suoi libri, trovarono alcuni titoli presumibilmente incriminanti (in gran parte saggi di politica sulla sinistra turca) e lo presero in custodia. Le autorità turche sapevano che il giovane reporter era stato coinvolto nella diaspora turco-curda in Austria, il suo paese d’origine. Zirngast si era trasferito in Turchia nel 2015 per continuare i suoi studi universitari in scienze politiche e da alcuni anni collaborava con varie testate scrivendo del crescente autoritarismo nel paese. È stato anche coautore di molti articoli in pubblicazioni come la rivista socialista statunitense Jacobin. Attivista socialista, aveva anche partecipato a varie dimostrazioni a favore della pace di cui aveva scritto ponendo in evidenza l’importanza di azioni per un paese più giusto e democratico. Ma nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan esprimere liberamente il proprio pensiero è un rischio, come dimostra il pugno duro con il quale lo Stato ha colpito operatori dei media, attivisti e studiosi dissidenti. In una nazione in cui anche gli organi di informazione sono obiettivi, trasformandola di fatto nella più grande prigione al mondo per i giornalisti, le attività di Zirngast sono state sufficienti per farlo finire nel mirino delle autorità turche. Costretto a dormire in una cella fredda su una branda di legno, con una coperta sottile e senza cuscini, i primi giorni di prigionia del giovane austriaco sono stati un incubo.
“Stavo gelando e avevo puntata addosso una luce accecante tutto il giorno. Le razioni di cibo erano scarse e ghiacciate. Per giorni ho avuto mal di stomaco, crampi e diarrea” ha raccontato all’ambasciatore del suo Paese che ha potuto incontrarlo solo una settimana dopo il suo arresto.
Durante gli interrogatori della polizia e del pubblico ministero ad Ankara gli è stato chiesto perché avesse dei libri sulla politica curda, dei presunti legami con la Fondazione Friedrich Ebert, un gruppo di difesa social-democratica che ha sede a Istanbul, che il giornalista ha smentito, e di un articolo che aveva scritto per Jacobin il cui contenuto era considerato un ‘insulto’ a Erdogan. Ma nessuaa imputazione è stata avanzata formalmente, seppure sia stato trattenenuto con vaghe accuse di terrorismo.
In particolare tutti coloro che difendono i diritti dei curdi sono andati incontro a una repressione particolarmente dura. L’ex co-presidente del Partito popolare (HDP), Selahattin Demirtas, è in carcere dal novembre 2016 con accuse di terrorismo come il presidente dei deputati HDP Idris Baluken, che sta scontando una pena di nove anni per “lropaganda terroristica”.
Oltre a questo giro di vite nei confronti della comunità curda, da oltre due anni continuano le epurazioni dei presunti “Gulenisti”, coloro che il governo ritiene siano seguaci del predicatore in esilio Fethullah Gulen che Erdogan accusa di essere la mente del fallito colpo di stato del 2016.
Tra questi tantissimi giornalisti e scrittori, alcuni già condannati a pene gravissime come Ahmet Altan e Nazli Ilicak, 69 e 74 anni, che stanno stanno scontando l’ergastolo aggravato.
Oltre Altan, Ilicak e Zingast, altri 165 operatori dell’informazione sono ancora in carcere. Per il governo turco sono terroristi, o ‘amici’ dei golpisti. Oppure, semplicemente dei piantagrane per aver scritto cose sgradite al regime o per essersi impegnati nella difesa dei diritti e delle libertà della stampa e di tutte le persone in Turchia. Sorte toccata anche a intellettuali e accademici come Osman Kavala ‘colpevole’ di aver riunito persone dai diversi punti di vista politici per discutere le loro convinzioni nel dibattito civile e sullo Stato di diritto. Ma nell’attuale Turchia chiunque coltivi e promuova un confronto su questi temi è considerato un nemico, una minaccia.
Le cifre della repressione danno la misura della gravità della situazione: oltre 142.000 persone arrestate, 100 mila licenziate, 300 tra istituzioni, centri culturali e associazioni costrette a interrompere le attività, quasi 200 media chiusi. Una epurazione che colpisce tutte le categorie, dai militari ai funzionari pubblici, dagli accademici ai giornalisti. E che continua senza sosta nonostante dallo scorso luglio sia stata decretata la fine dello Stato di emergenza.