La maggioranza in parlamento lo vorrebbe modificare. «Illiberale e inemendabile» dicono magistrati, avvocati, mediatori al convegno «Riforma del diritto di famiglia e ddl Pillon. I doveri degli adulti e i diritti dei bambini»
Su una cosa sono stati tutti d’accordo: il disegno di legge 735 non è emendabile e va respinto. A dirlo sono magistrate, avvocati, psicologhe e giornaliste, riunite al senato durante il convegno Riforma del diritto di famiglia e ddl Pillon. I doveri degli adulti e i diritti dei bambini, che si è svolto due giorni fa a Roma organizzato da Articolo21 e MD (Magistratura democratica), e con la partecipazione dell’Ordine dei giornalisti del Lazio che lo ha incluso nella sua formazione. Un tavolo tecnico sul controversa riforma che ha avuto l’adesione di Cismai (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia), Area (Area democratica per la giustizia), Aiaf (Associazione italiana avvocati per la famiglia e i minori), Differenza Donna, Iicl (Istituto italiano di diritto collaborativo) e Uncm (Unione nazionale camere minorili): sigle che già avevano espresso pareri nei confronti di questa proposta, attualmente in discussione alla commissione giustizia del senato dove si stanno svolgendo le audizioni.
Un testo che per la senatrice del Pd Valeria Fedeli, che ha ospitato e promosso l’incontro, va respinto per i contenuti «illiberali», contrariamente a quanto pensa la maggioranza che in parlamento lo vorrebbe modificare mettendo mano anche alla legge 54/2006 sull’affido condiviso «con il rischio di fare danni», in un’accesa discussione su bigenitorialità e alienazione parentale, dove però spesso si dimenticano «l’interesse supremo dei bambini e i diritti delle donne, strettamente collegati». E questo in un clima di erosione dei principi democratici ben descritto da Maria Rosaria Guglielmi – sostituto procuratore e segretaria di Md – che ha parlato di «vento di restaurazione», in un’atmosfera in cui la stessa libertà d’informazione viene attaccata, come sottolineato da Silvia Resta dell’Odg Lazio. «Qualcuno ha definito il disegno di legge Pillon una riforma devastante, e credo che non ci sia qualificazione più appropriata di questa», ha detto la giudice Gabriella Luccioli – già presidente della Corte suprema di Cassazione – aprendo i lavori del convegno e sottolineando che non si tratta di affido condiviso ma di «affido diviso».
Un articolato che, secondo lei, «implica una burocratizzazione della bigenitorialità che ha dell’assurdo», con il bimbo che diventa «un patrimonio familiare cointestato» e con una vita «spezzata a metà», in cui oltre a togliere al minore la casa familiare, l’assegno e il mantenimento ai figli che ancora studiano, si vuole introdurre la presenza dei nonni facendo diventare il processo «una guerra tra clan». Ma a destare preoccupazione, per Luccioli, è soprattutto che «i principi di questo disegno sono contenuti nel patto di governo» in cui «sta passando la linea di piccoli ritocchi a un progetto assolutamente inemendabile» per le tante criticità di un testo in cui «la qualità tecnica è scarsissima, dove molte norme sono del tutto oscure», in un ddl «ipertrofico, ripetitivo, che manca di qualsiasi coordinazione con le norme non toccate dalla riforma», in una impostazione generale dove la «bigenitorialità perfetta viene intesa come diritto personale degli adulti sul minore, in una visione adultocentrica che imbriglia il minore in logiche proprietarie». Per la ex presidente le categorie utilizzate da Pillon «sono svilenti nei confronti dei minori e delle donne» e contengono una «filosofia rivendicativa di un genitore sull’altro», mentre «l’interesse del minore è continuamente negato» e il bambino è «chiuso in una gabbia dove non ha la possibilità di esprimere liberamente il suo pensiero e la sua dignità»: un disegno che somiglia a un «horror vacui» inapplicabile alla realtà, con un ritorno a un passato che non può essere riproposto e su cui, «anche se emendato, si abbatterà ben presto la mannaia della Corte costituzionale e della Corte di Strasburgo».
Norme, quelle proposte da Pillon, che si presentano con una grave minimizzazione della violenza domestica e che per Maria Monteleone – magistrata a capo del pool antiviolenza del Tribunale di Roma – produrranno «effetti negativi» e saranno un «incentivo a non denunciare maltrattamenti all’interno dei nuclei familiari, molto più di quanto non accada oggi». Prendendo in esame la violenza economica, e in particolare l’articolo 21 del ddl 735 che dispone l’abolizione del 570 bis del codice penale che punisce il genitore che non adempie agli obblighi di mantenimento dei figli, Monteleone fa presente che non si tratta di un reato in estinzione ma di un crimine in aumento che solo a Roma conta 3.500 denunce negli ultimi tre anni. Una reato la cui cancellazione, come sostiene anche l’Associazione nazionale magistrati, non si giustifica con la presenza del mantenimento diretto in quanto «anche in quel caso c’è sempre la possibilità che un genitore possa essere inadempiente», mentre toglierlo espone le vittime, ove esista violenza domestica spesso accompagnata da quella economica, facendo in modo che diventi un’altra arma di ricatto, non impugnabile, nel caso di separazioni ad alta conflittualità. Una riforma, come ha ripetuto Grazia Cesaro dell’Uncm, che «è pericoloso emendare» in quanto «una legge sui bambini non solo va scritta bene ma va pensata bene» con «leggi che di solito prendono spunto dalle grandi convenzioni internazionali», qui assenti. Una proposta la cui applicazione va contro tutte le convenzioni internazionali a tutela dei bambini, come per esempio «l’ascolto dei minori – continua Cesaro – che qui somiglia a un incidente probatorio», per cui al posto del 336 bis, dove si prevede un ascolto fatto dal giudice che informa il minore avvalendosi di esperti mentre i genitori sono ammessi solo per suggerimenti al giudice, si avrebbe l’art. 16 del ddl Pillon che dispone un ascolto del minore videoregistrato alla presenza del giudice e di un esperto, ma con le parti che possono assistere in un locale separato collegato mediante video, e possono fare domande per mezzo del giudice. Una norma in cui «spariscono i diritti dei bambini che non sanno perché vengono ascoltati, e con l’obbligo della videoregistrazione che adesso è inclusa solo in casi eccezionali: pratica «che nulla ha a che fare con l’ascolto del minore ai sensi dell’art. 12 della Convenzione Onu e che somiglia più a un interrogatorio».
Anche Gabriella Soavi, psicologa e presidente Cismai, e Andrea Coffari, avvocato presidente del Movimento per l’infanzia, hanno sottolineato l’assenza della voce dei bambini che, con una legge così, verrebbero esposti a violenze intra familiari con la legittimazione di una legge del tutto anticostituzionale. Per Soavi quello che salta agli occhi è la piena affermazione del diritto esclusivo degli adulti mentre è del tutto assente il diritto del bambino a essere creduto e ascoltato nel caso manifesti un disagio verso un genitore. «Questo ddl – dice la presidente del Cismai – non tiene conto che il 51% delle separazioni è connesso a violenza intra familiare, una violenza a cui, secondo l’Istat, assiste il 64% dei bambini: una forma gravissima di maltrattamento che ha stime che arrivano fino a un milione di bambini che in questa riforma non hanno diritto di credibilità sebbene sia essenziale, quando un piccolo si rifiuta di vedere un genitore, indagare la ragione perché dal punto di vista psicologico il rifiuto è alla fine di un processo, e non all’inizio». Una lettura, quella del legislatore, che butta via anni di studio sulla psicologia infantile per sostenere l’alienazione parentale che invece viene applicata «in una logica non comprensiva ma punitiva». Un punto approfondito da Coffari che parlando di dinamiche già in atto in molti tribunali italiani dice che questo ddl disciplina l’affido tutelando «il genitore violento che dal punto di vista statistico sono i padri». «Questo disegno – aggiunge Coffari – è centrato sul padre accusato di violenza e calpesta i diritti delle vittime perché quando c’è un padre abusante o incestuoso, c’è sempre violenza in famiglia». Per l’avvocato tutto parte dall’articolo 11 che modifica l’attuale 337 ter che dà discrezionalità al giudice in casi complessi di separazioni conflittuali, una norma preziosa quando vi sia sospetta violenza, che dà la possibilità di capire caso per caso e che con il ddl Pillon «sparisce completamente per cui il giudice non può più realizzare la tutela del minore». E anche se l’articolo 11 vieta l’affido condiviso «nei casi di violenza o abusi comprovati, dal punto di vista normativo il padre che è l’offender nella quasi totalità dei casi, ottiene la frequentazione del bambino almeno 12 giorni al mese con pernotto, grazie all’articolo 12, anche in casi di violenza grave».
Un affido esclusivo quindi che sarà incurante della salute del bambino «al quale interessa con chi si sveglia la mattina, se con un genitore protettivo o abusante». Una situazione che precipita con gli articoli 17 e il 18 che contengono l’alienazione parentale su cui la stessa giudice Luccioli scrisse la sentenza sul bambino di Cittadella citando il suo inventore come un «sostenitore della pedofilia», uno psichiatra di nome Richard Gardner che in Sex, Abuse and Hysteria scriveva: «I moralisti provano una segreta invidia verso quelli che si concedono senza sensi di colpa tale liberazione (…) e intraprendono la campagna denigratoria al fine di annientare quelli che si permettono maggiore libertà di espressione sessuale: campagna contro la pedofilia che è l’espressione di questo movimento di repressione». Una delle tante frasi dell’ispiratore dell’alienazione parentale che «Pillon e i suoi amici vorrebbero fare entrare in una legge – conclude Coffari – condannando un bambino a essere punito nel momento in cui dimostra un disagio, anche motivato da racconti di abusi, e che senza alcuna investigazione sarà sottoposto a ordinamenti coercitivi tra cui l’articolo 342 per cui il bambino potrà essere messo non in una casa famiglia ma in una struttura specializzata che somiglia ai gulag», «al fine di recuperare la bigenitorialità».
Un bambino che all’articolo 14, nel caso in cui la madre scappi portando via suo figlio e cercando protezione nelle case rifugio con prassi che vanno attuate all’oscuro del partner perché in pericolo c’è vita, sarà riportato a casa dalle autorità di pubblica sicurezza, «scavalcando lo strumento della discrezionalità del giudice che prima di tutto indaga sulla vicenda per stabilire l’esito». Madri che vengono esposte non solo nel ddl Pillon ma anche nel ddl 45 (Binetti, De Poli, Saccone) che viene discusso congiuntamente con il ddl 735, e che ridurrebbe pericolosamente il reato di maltrattamenti in famiglia. Come spiega Teresa Manente, avvocata di Differenza donna, è ormai noto come la violenza in famiglia segua una dinamica in cui l’offender alterna maltrattamenti a momenti di pausa dove «l’uomo si pente e chiede perdono», per poi ricominciare la violenza: uno schema che ha portato a introdurre nel codice penale l’abitualità contenuta nell’articolo 572 del c.p. e che il ddl 45 vuole sostituire il concetto di «sistematicità» (articolo 5), rendendo così inefficaci gli strumenti di contrasto alla violenza maschile introdotti negli ultimi trent’anni.
Con il ddl Pillon non solo il giudice perderebbe del tutto il suo ruolo di garante cedendolo a soggetti privati in quanto, come ha spiegato Franca Mangano – presidente della sezione famiglia della corte d’appello di Roma – ma i «piani genitoriali e la mediazione saranno utilizzati non per creare forme alternative alla giurisdizione ma per mettere nell’angolo la discrezionalità del giudice», sostituendo alla sua figura di garante quella di istituti privati «che vengono inseriti all’interno del processo e rafforzati con sanzioni processuali che sono l’improcedibilità, la nullità e la sospensione con devoluzione al coordinatore familiare, qualora la conflittualità permanga all’interno del giudizio». «Strumenti processuali di sanzione assegnati a soggetti privati che creeranno uno squasso processuale», in presenza di «interessi privati – dice Mangano – che intervengono nel giudizio e uccidono la mediazione familiare con figure pagate dalle parti di cui non è chiaro il profilo e la formazione».
Una mediazione che per le avvocate Marina Petrolo, presidente Iilc, e Rita della Lena, direttivo Simef (Società italiana mediatori familiari), è ben diversa da quella descritta da Pillon che somiglia più alla pratica collaborativa in cui gli avvocati cercano un accordo poi sottoposto al giudice. Mediazione in cui è bene distinguere tra quella civile e familiare, concetti confusi nel ddl 735, non utilizzabile né in presenza di violenza ma neanche con alta conflittualità della coppia – che sono i casi che stanno a cuore a Pillon – e che non può essere obbligatoria mai perché perde la sua stessa prerogativa. Una mediazione che comunque non può mai sovrastare le decisioni di un giudice al quale, per Elisa Chiaretto – avvocata del direttivo Aiaf – non si dovrebbe togliere ma ridare il ruolo che gli spetta con una «riappropriazione delle proprie competenze in caso di conflitto dei genitori, dato che già oggi spesso queste competenze vengono delegate a consulenti tecnici, psicologi, assistenti sociali che hanno un ampliamento del loro compito nel processo, mentre invece dovrebbe essere il giudice a usare propri strumenti, ricorrendo a Ctu e servizi sociali solo in ipotesi residuali e motivate».
Un’eccessiva delega a «esperti» che usano in maniera arbitraria la teoria dell’alienazione parentale, mai dimostrata scientificamente, con esiti disastrosi nei tribunali italiani, a causa dell’enorme infiltrazione che questa «teoria» ha avuto tra gli psicologi, psichiatri e assistenti sociali, che sono poi anche i più combattivi sostenitori del ddl Pillon.