Venerdì scorso 14 dicembre 2018, la piattaforma Netflix ha consentito – in tutto il mondo – la fruizione del lungometraggio cinematografico “Roma”, di Alfonso Cuarón (classe 1961, reduce dall’hollywoodiano ma anomalo bel “Gravity”, che gli ha fatto vincere un Oscar per la miglior regia), opera vincitrice del “Leone d’Oro” al Festival di Venezia… ma il film era già fruibile, nello splendore delle sale cinematografiche, grazie ad un avanguardistico intervento della Cineteca di Bologna (fondazione pubblica sostenuta da Stato, Regione, Comune), che ha deciso di tentare una distribuzione “theatrical” in Italia.
Il film è infatti stato proiettato “in anteprima” nelle sale cinematografiche italiane dal 3 dicembre. Dal venerdì scorso (14 dicembre), il film è quindi in distribuzione in contemporanea “theatrical / vod” (si ricorda che “vod” è l’acronimo di “video-on-demand”). Nelle intenzioni iniziali, il film doveva restare in sala soltanto tre giorni, dal 3 al 5 dicembre, a mo’ di “evento speciale”, ma invece sta “reggendo” bene, e la “tenitura” andrà forse ben oltre Natale…
Nello stesso Messico, il film sta registrando una distribuzione molto limitata, inizialmente soltanto in 40 sale cinematografiche. Il regista, ben felice della distribuzione via internet, ha comunque auspicato che il film venga proiettato in sale cinematografiche dotate di proiettori 4K (il formato digitale di alta definizione), meglio se dotate di impianto audio Dolby Atmos (che consente una grande qualità sonora). Si ricordi che a Venezia il regista ha preteso che venisse proiettato in pellicola.
Da segnalare che il film è stato offerto alle sale cinematografiche messicane tre settimane prima dell’offerta sulla piattaforma Netflix, ma le due principali catene di sale del Paese (Cinépolis e Cinemex, che controllano il 90 % degli schermi del Paese) lo hanno rifiutato, ed il regista ha manifestato su web un appello, su Twitter, affinché lo contattassero i proprietari di cinematografi disponibili alla proiezione: le 40 sale iniziali sono cresciute ed hanno raggiunto oggi quota 100. Attualmente, le sale cinematografiche che proiettano il film sarebbero oltre 500 in tutto il mondo, e pare che stia per essere distribuito anche in Cina, in 1.800 cinematografi. In Usa, secondo “IndieWire”, il film avrebbe incassato nelle sale, al 16 dicembre, circa 1,3 milioni di dollari, offerto in 145 cinematografi, ed una previsione di 2 milioni di “box office” è verosimile in pochi giorni: un risultato eccellente per un film di questo tipo, peraltro sottotitolato. Non impegnandosi a tenere le sue pellicole nelle sale per i tre mesi canonici, Netflix non può piazzarle nella maggior parte dei circuiti “theatrical” Usa: nei primi giorni, è spesso costretta ad affittare le sale, una tattica paragonata al “self-publishing”, usata in passato per i film che il servizio in streaming giudicava meritevole di premi.
“Roma”, che è candidato all’Oscar come miglior film straniero, è offerto in Italia dalla piattaforma con la chance di provare Netflixgratis per un mese: l’abbonamento “base” costa 8 euro, quello “standard” 11 euro (consente la fruizione su 2 schermi contemporaneamente, ed in alta definizione), quello “premium” (4 schermi, ad altissima definizione) 14 euro al mese.
Alcune sale cinematografiche coraggiose, a Roma (qui intesa come… Roma Capitale) il centralissimo e qualificato Cinema Farnese (il più famoso “arthouse cinema” della Capitale), a Milano il Beltrade ed il Messico, complessivamente 23 in tutta Italia, stanno proiettando il film, che sta registrando con un buon successo di “box office”, anche se incredibilmente Netflix impedisce agli esercenti di rendere pubblici i dati degli incassi. E questa modalità è sintomatica di un processo imprenditoriale e di un modello culturale che provocano grandi perplessità.
Quel che è divenuto “il caso Netflix” stimola interrogativi profondi sullo stato di salute del cinema, inteso come opera audiovisiva ma anche come luogo di fruizione: qualcuno preconizza che le sale cinematografiche sono destinate a sicura morte, sebbene “il cinema non morirà mai”, come teorizzava il compianto Mario Monicelli.
La questione è molto complessa, in un intreccio di economico e semiotico.
E ci interroga profondamente sulla radice stessa della “forma cinema” in mutazione, ovvero il cinema nell’epoca dei “social”.
Abbiamo già affrontato la questione qualche mese fa, su queste colonne (vedi “Key4biz” del 23 aprile 2018, “Netflix, maxi-investimenti in produzioni originali (ma quanto punta in Italia?)”) e risegnaliamo una interessante esplorazione delle misteriose strategie di Netflix proposta il 10 dicembre da Angelo Mastrandrea, su “Internazionale”, in un reportage intitolato “La crisi del cinema in Italia va in onda su Netflix”.
Si ricordi che il Festival di Cannes ha detto “no” ai film Netflix in concorso, perché la piattaforma non rispetta le “finestre” temporali previste dalla rigida normativa francese, mentre la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha adottato una linea morbida, “in nome” (appunto) della polimorfa arte cinematografica…
Veniamo al film, che dura 135 minuti (forse… troppi): Roma (per la precisione Colonia Roma) è il nome del quartiere residenziale di Città del Messico ove è ambientata una storia degli Anni Settanta, scene di vita domestica dal sapore autobiografico per il regista, proposta in un film girato in bianco e nero a 70 millimetri (anche se parrebbe che la versione originale sia a colori e che il regista abbia deciso di “virarlo” in bianco e nero, con un risultato piuttosto strano: la definizione non è infatti poi così alta, e c’è una attenuazione della cromia che tende al grigio), con attori prevalentemente non professionisti, e girato in spagnolo e dialetti locali. Colonna musicale ben curata ed effetti sonori di grande qualità, quasi maniacalmente.
Un “amarcord” molto lento, vero e proprio “film della vita”, con un avvio esasperante, ed alcune scene toccanti (in particolare, un traumatico parto con inquadratura fissa in parte fuori fuoco, o la scena dell’incubatrice di un neonato schiacciata dai calcinacci di un terremoto), con un uso fluido della cinepresa che si muove morbidamente (anche con piano-sequenza e carrellate ben studiate), inquadrature prevalentemente in campo medio e lungo, spesso grande profondità di campo, e qualche dettaglio (secondo alcuni fruibile per bene soltanto sul grande schermo, secondo altri tranquillamente anche su un tablet)… La critica è per lo più impazzita: su “The New York Times” di sabato scorso, Marcela Valdesha citato il Vittorio De Sica di “Ladri di biciclette” ed “I 400 colpi” di François Truffaut… Sul portale statunitense Metacritic il film ha ottenuto un punteggio di 96 su 100, basato su 50 recensioni, che indicano il livello di “plauso universale”. Qui ci piace segnalare la dotta recensione di Riccardo Tavani, su “Stampacritica”.
Il regista rievoca la propria infanzia, il padre che lascia la madre quando Alfonso aveva dieci anni, i moti studenteschi del 1971 e la repressione poliziesca vissuti indirettamente nell’ambiente ovattato della piccola borghesia, le ritualità e le ipocrisie di quella classe sociale, con un occhio delicato concentrato sulla vicenda traumatica di una giovane donna di servizio e tata della famiglia (una sorta di “seconda madre”, per il regista), oscillando tra il livello intimista (l’ipocrisia familista, il dominio maschilista…) e quello sociologico (ma nessun conato di coscienza rivoluzionaria o lotta di classe sembra scattare nella proletaria sfruttata…). Volutamente i piani della narrazione si confondono, qualche pathos viene certo ben stimolato, ma complessivamente il film non appassiona fino in fondo: anni-luce dalla poesia dirompente di un Pier Paolo Pasolini.
Il regista firma anche la sceneggiatura, il soggetto, la fotografia, il montaggio.
Un capolavoro, come hanno sostenuto e sostengono alcuni critici e molti cinefili?!
Secondo il parere di chi scrive queste note, assolutamente no: si tratta di un film senza dubbio interessante e ben curato, che certamente merita essere visto, ma che non può vantare nulla di innovativo, né linguisticamente né artisticamente né tecnicamente. Siamo anni-luce dai capolavori del neo-realismo italiano (in un’intervista, Alfonso Cuaron ha dichiarato di essere rimasto sconvolto dalla visione, in tv, quando era piccolo, di “Ladri di bicicletta”, e quell’evento lo stimolò a fare cinema)…
Condividiamo la recensione di Paolo Mereghetti sul “Corriere della Sera”: “un sovraccarico di senso, che però finisce per togliere vitalità al film, troppo perfetto nelle sue studiatissime inquadrature e nei suoi ricercati movimenti di macchina per emozionare davvero. Svelando quello che è probabilmente il problema delle produzioni Netfiix affidate a registi di gran nome: una libertà tanto grande da favorire gli eccessi”.
Quel che forse rende particolarmente intrigante il film non è l’opera in sé, ma la funzione di rottura degli schemi distributivi che Netflix ha messo in atto attraverso “Roma”.
Accusata dagli esercenti cinematografici di sconvolgere il paradigma tradizionale che prevede, per un film, prima la proiezione in sala, e soltanto dopo la fruizione sulle altre piattaforme, Netflix ha scardinato la logica storica delle “window”.
Nel caso di “Roma”, Netflix ha prodotto un film certamente non hollywoodiano, ha prodotto un film non costruito a tavolino per un target commerciale, ha prodotto senza dubbio un film che non può non essere classificato come “d’autore”: ha investito sicuramente somme significative (anche se non ci sono dati ufficiali sul budget di “Roma”, pare si tratti di 15 milioni di dollari, comunque poca cosa dal punto di vista di Hollywood), ma ha “imposto” una distribuzione sostanzialmente in contemporanea, tra sala e piattaforma.
Una azione provocatoria, tra la dimensione culturale e la dimensione economica.
Alcuni hanno ipotizzato che questo “cambio di strategia”, cioè far distribuire i film “anche” nelle sale cinematografiche sia strumentale e contingente: una tecnica per placare le critiche verso Netflix, anche in vista degli Oscar. E si ricordi che “Roma” è candidato idealeper Netflix (la mitica statuetta verrà assegnata il 24 febbraio 2019)… Questa strategia potrebbe essere applicata anche nel 2019 in per film ambiziosi come “The Irishman” di Martin Scorsese, “The Laundromat” di Steven Soderbergh con Gary Oldman, Meryl Streeped Antonio Banderas.
Come un avvertimento, target i cinefili: volete che noi si produca anche bel cinema?! Ed allora non rompeteci l’anima con schematismi passatisti: noi produciamo, noi rischiamo, ma fateci distribuire “il cinema” dove e come più ci aggrada. Oltre la sala cinematografica. Anche perché noi di Netflix vi possiamo garantire una distribuzione planetaria (per quanto potenziale) anche di opere indipendenti e difficili, che gli schemi di business tradizionali dell’industria audiovisiva non hanno finora mai consentito…
Il “caso Roma” rientra nella strategia di Netflix, che sembrerebbe stia cercando nella dimensione “local” la propria “killer application”: investire anche in prodotti assolutamente “locali”, ma che si caratterizzano per un linguaggio spendibile universalmente. Tutto comunque sottoposto al dominio di… modelli matematici. Con qualche “eccezione alla regola”, come verosimilmente è il caso del film “Roma”, che crediamo sia effettivamente poco… algoritmico.
Come è stato notato, senza Netflix… chi avrebbe mai pensato che una serie televisiva italiana come “Suburra” potesse essere offerta ad un pubblico coreano?! Il primo esperimento di Netflix è stata la serie “made in Brazil” intitolata “3 %”, la seconda è stata giustappunto l’italiana “Suburra”. Ed il 30 novembre è stata offerta la seconda serie italica, “Baby”, ispirata allo scandalo delle ragazzine-squillo del quartiere-bene della Capitale, i Parioli.
Il problema di fondo è che, a fronte della affascinante teorizzazione di Netflix come manna audiovisiva per il pianeta intero (è offerta in 190 Paesi), non esistono dati che consentano di comprendere che livello di audience raggiungono le opere offerte dalla piattaforma.
Quanti hanno visto o stanno vedendo “Gomorra” a livello planetario?! Non è dato saperlo.
La società si rifiuta infatti di fornire dati di sorta, anche se notoriamente il suo modello di business è paradossalmente basato su una eccezionale capacità di analizzare i dati dei propri fruitori: l’aspetto positivo, secondo Netflix, è la possibilità di “personalizzare” al massimo l’esperienza di fruizione (dichiara la piattaforma, a chiare lettere: “più titoli guardi, più semplice sarà per Netflix suggerire film e serie tv che rispondono alle tue preferenze”); l’aspetto negativo, secondo i detrattori, è un enorme potere di influenzare le dinamiche del mercato.
In sostanza, le accuse che vengono mosse nei confronti di Netflix non sono diverse rispetto a quelle che vengono mosse verso “player” come Google: apparente infinita libertà (mitologie del web), sostanziale vocazione al controllo (e latente rischio di occulta eterodirezionalità).
Un altro “Grande Fratello” dietro l’angolo, sotto la maschera d’angelo salvifico: a Netflix sanno tutto dello spettatore: che supporto tecnologico utilizza, cosa vede esattamente, a che ora e come… quali scene vengono riviste, quali trailer risultano accattivanti, quando ci si concede una pausa…
Un esempio classico di “big data”, riferito a ben 137 milioni di abbonati in tutto il pianeta, ma dati tenuti sotto chiave: segreti industriali, informazioni ad esclusiva circolazione interna, su tutti i fronti. Il collega Franco Montini, su “la Repubblica” del 10 dicembre, segnalava che i contratti “theatrical” prevedono una precisa clausola che obbliga gli esercenti cinematografici a non rivelare i dati di incasso. E l’ufficio stampa di Netflix risponde alle domande dei giornalisti con una cortesia spiazzante ma netta: “no data”.
I detrattori sostengono che il processo decisionale della società, in campo editoriale, è vincolato anzi dettato dalle logiche dell’algoritmo, anche se il “Chief Producer Officer” Greg Peters ha dichiarato: “sarebbe possibile lavorare seguendo soltanto e sempre le indicazioni dei dati. Anche cambiare le storie, perché calzino a pennello a chi le guarda. Ma è bene chiedersi se farlo possa rendere il pacchetto davvero interessante. E vi posso assicurare che in Netflix non sono gli algoritmi che ci spingono a credere in una storia piuttosto che in un’altra…”. Temiamo invece che questa maschera buona celi una verità altra, ovvero il dominio assoluto – o quasi – dell’algoritmo, forma estrema del dominio del capitale digitale nell’economia di senso che domina sempre più le nostre esistenza.
Gli analisti finanziari continuano a manifestare dubbi sulle capacità crescita di medio periodo di Netflix (che pure vanta ormai una capitalizzazione di oltre 150 miliardi di dollari Usa, superando addirittura quella della Disney!), che ha accumulato 6 miliardi di dollari di debito (dato dell’estate 2018), ma che, nonostante questo fardello, investe ormai 8 miliardi di dollari l’anno in nuove produzioni.
Come reagire a questo “sconvolgimento” delle regole del gioco che Netflix sta provocando nel mercato audiovisivo, scardinando la sequenza tradizionale d’offerta cinema – dvd – pay tv – tv free?!
Lo storico critico del “Corriere della Sera” Paolo Mereghetti ha scritto a chiare lettere, il 5 dicembre: “Avere paura di Netflix non aiuta i nostri cinema. Boicottare la piattaforma digitale potrebbe diventare un autogol senza senso”.
Crediamo che si debba certamente rifuggire il manicheo schieramento tra “integrati” o “apocalittici”, ma si deve procedere comunque con grande prudenza e senza facili ottimismi, perché la segretezza delle strategie di Netflix non stimola certo grande fiducia nella trasparenza industriale della piattaforma. Latente è il rischio di una strategia di spiazzamento (quasi… un “détournement” à la Guy Debord; e si ricordi peraltro che il padre del situazionismo nel 1952 dichiarava provocatoriamente, nel suo primo film, che… il cinema era morto).
Paolo Mereghetti ricordava che “la prima tempesta era scoppiata con ‘Sulla mia pelle’, il film sul caso Cucchi (per la regia di Alessio Cremonini) che il coproduttore italiano Lucky Red, dopo averlo venduto alla piattaforma americana, aveva deciso di distribuire ugualmente nei cinema, in contemporanea con la diffusione in streaming. Quasi tutto il cinema nazionale aveva protestato perché così non si rispettava più la tradizionale successione di visione (prima la sala, poi il dvd, poi le televisioni a pagamento e infine quelle free), costringendo l’amministratore delegato della Lucky Red Andrea Occhipinti a dare le dimissioni dalla presidenza dei distributori italiani. (C’era anche un’altra ragione di malcontento: il fatto che il film avesse ricevuto i contributi come opera cinematografica quando la vendita a Netflix l’aveva poi ‘derubricato’ a opera audiovisiva, cui sarebbero spettati altri, e minori, tipi di finanziamenti. Ma questo c’entrava poco con la ‘polemica Netflix’ e si diceva solo a denti stretti). Piuttosto andrebbe ricordato che nonostante la disponibilità in streaming e le numerose proiezioni ‘militanti’ (spesso pirata), il film ha incassato a tutt’oggi circa 560mila euro, più di moltissimi film italiani”.
Si ricordi anche che per affrontare questa situazione, Alberto Bonisoli, Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, ha firmato a metà novembre un decreto in cui riduce sensibilmente le cosiddette “finestre”, cioè il tempo che deve passare per la diffusione delle opere audiovisive dopo “la prioritaria visione in sala cinematografica”: 105 giorni, che si riducono a 60 se il film non raggiunge un certo numero di spettatori (50mila, equivalenti più o meno a un incasso di 300mila euro: per tanti film nazionali un miraggio), che si riducono addirittura a 10 giorni soltanto, se il film viene programmato solo per 3 giorni, che non siano quelli del weekend (il caso dei tanti “eventi speciali” che poi vanno a ingrossare i palinsesti di reti con Sky Arte e simili). Chi non rispetta la nuova regola, sarà escluso dai benefici previsti dalla legge (leggi “tax credit”) che sono accordati alle opere italiane. Il decreto è stato presto soprannominato “decreto anti-Netflix”, ma crediamo che si tratti di una interpretazione errata, perché riteniamo che non sarà un simile “paletto” normativo a ridurre la volontà della piattaforma di continuare ad investire sul cinema “locale”, incluso quello italiano.
Abbiamo visto “Roma” su grande schermo – ovviamente – al Cinema Farnese (domenica sera, sala piena), ed abbiamo ascoltato la presentazione, entusiastica, di Gian Luca Farinelli, Direttore della Cineteca di Bologna, ed artefice della distribuzione del film nelle sale cinematografiche italiane. Non condividiamo il suo entusiasmo estetologico sul film, ma ci piace segnalare che, a fronte della nostra osservazione critica sulla politica di segretezza dei dati di Netflix, ci ha un po’ spiazzati, domandandoci: “ma siamo proprio sicuri che rendere pubbliche le informazioni sui consumi di cinema e televisione, ovvero Cinetel ed Auditel, sia alla fin fine utile per il miglior funzionamento del mercato, o si tratta di strumenti che contribuiscono all’omologazione dei consumi, paradossalmente ostacolando la diffusione di opere difficili?!”. Da analisti del settore, specializzati nelle politiche culturali e nelle economie mediali, crediamo che la provocazione di Farinelli meriti essere ben approfondita.
Che, alla fin fine, abbia forse ragione Netflix (ovvero non si disturbi il grande manovratore)?!
*Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Ha collaborato Carla Di Tommaso