Fa davvero piacere vedere un fuoriclasse come Modrić assiso in cima al mondo, campione dei campioni al termine di un anno solare nel quale è stato un protagonista assoluto: in campo e nelle cronache relative al calcio mercato.
Fa davvero piacere, anche a uno juventino e ronaldista come me, assistere alla conclusione di un duopolio, quello del Pallone d’oro diviso fra Messi e Ronaldo, che stava togliendo interesse al premio in sé e monopolizzando in maniera eccessiva l’attenzione dell’opinione pubblica, mortificando la classe e la grandezza di altri fuoriclasse, magari meno celebrati ma non per questo meno decisivi per le sorti dei rispettivi club.
Al talento personale, poi, Modrić ha sommato una professionalità e una dedizione alla squadra veramente encomiabili: caratteristiche che hanno consentito di trionfare non solo al magno Real Madrid zidaniano ma anche alla piccola e agguerrita Croazia, costretta ad arrendersi solo in finale alla grandeur francese dell’astro nascente Mbappé.
Non a caso, i giurati di France Football hanno insignito, ieri, il diavolo transalpino della prima edizione del Kopa trophy (dedicato al miglior calciatore under 21), istituito quest’anno copiando il Golden Boy di Tuttosport che lo scorso anno era andato proprio al fenomeno transalpino, seriamente candidato ad un futuro da stella planetaria.
Tornando al croato, a mio modo di vedere, è stato giusto premiare un esempio di correttezza e magia allo stato puro che aveva solo quest’occasione per vedere le proprie doti riconosciute a livello planetario, a differenza, ribadiamo, di un furetto non ancora ventenne che ha almeno un decennio, se non un quindicennio davanti a sé per porre il proprio nome accanto a quello delle leggende che hanno scritto la storia di questo sport.
E poi è bellissimo vedere Modrić lassù, festeggiato e ammirato come merita, ripensando alla sua storia personale, alla sua biografia inscritta nella cornice tragica dei conflitti balcanici, lui che vide un nonno che si chiamava come lui assassinato dai serbi, il sangue, le macerie, la distruzione, lui che ha conosciuto un’esistenza da profugo, la miseria, la disperazione, il vuoto ed è arrivato dove è arrivato solo grazie alla sua bravura e alla sua maniacale abnegazione.
Quella di Luka Modrić è la storia amara di un figlio dell’inferno, della povertà e della paura, la storia di un campione realizzato, di un uomo speciale, di un calciatore eccezionale e dal sapore antico.
Ha vinto, precedendo Ronaldo e Griezmann, e siamo certi che il suo primo pensiero sia andato agli anni tremendi dell’infanzia e della prima adolescenza, mentre la Croazia di Šuker era costretta ad arrendersi, in semifinale, alla doppietta di Thuram e alla poesia di una Francia multiculturale e multietnica che, guidata da un berbero e giocando in casa, pochi giorni dopo si sarebbe laureata per la prima volta campione del Mondo, battendo in finale il Brasile Ronaldo.
Quel berbero si chiamava Zidane e tre lustri dopo è stato l’artefice della definitiva esplosione di un architetto del centrocampo che ricorda molto da vicino, per concretezza e visione di gioco, un po’ Pirlo e un po’ il Suárez interista forgiato dal Mago Herrera.
Non so se Modrić approderà mai all’Inter. So che è un mito universale, un galantuomo e un genio del calcio. Insomma, è impossibile non volergli bene.
P.S. Compie cinquant’anni Avvenire. I migliori auguri a uno dei frutti della Chiesa conciliare di Paolo VI, voce di libertà spesso controcorrente di cui, oggi più che mai, abbiamo bisogno.
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