A voler essere maligni e pessimisti, si potrebbe sostenere che, nello specifico del sistema culturale, l’approccio giallo-verde si caratterizza, al di là di una sostanziale linea di continuità rispetto al passato, per una politica degli annunci decisionisti, per un ottimismo ad oltranza, per un continuo lanciare il cuore oltre gli ostacoli: ascoltando in questi giorni la Sottosegretaria leghista delegata a cinema ed audiovisivo, Lucia Borgonzoni, ed il suo Ministro per la Cultura, il grillino Alberto Bonisoli sembrerebbe che le prospettive delle industrie culturali italiani siano positive assai…
Dall’osservatorio indipendente di un centro di ricerca specializzato e dalle colonne di questa testata indipendente, lo scenario non appare così confortante, e qui cercheremo di argomentare le ragioni di questo discreto scetticismo.
Ieri pomeriggio, mercoledì 5 dicembre, abbiamo assistito all’intervista che il collega Paolo Conti, firma eccellente del “Corriere della Sera” (e da sempre “inviato speciale” in materia di politica culturale: può peraltro vantare di aver intervistato Bonisoli a poche ore dal giuramento al Quirinale), ha curato con il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, in occasione della giornata inaugurale della 12ª edizione della Fiera della Piccola e Media Editoria (alla sua seconda sortita presso il centro congressi “La Nuvola”, firmato dagli archi-star Doriana e Massimiliano Fuksas), promossa dall’Associazione Italiana Editori (Aie). Di fronte ad una sala non propriamente affollata, il Ministro ha parlato simpaticamente di libri e di cinema, con il suo abituale tono moderato e pacato. Almeno due gli spunti interessanti: ha sostenuto che non ci sarà, nella legge di bilancio, alcuna riduzione degli incentivi fiscali all’editoria (in prima fila, il Presidente dell’Aie, un compiaciuto Ricardo Franco Levi), e che, rispetto al controverso decreto ministeriale sulle “finestre” (ovvero sui criteri temporali di offerta dei film nei vari canali distributivi), ritiene che questo intervento regolamentativo possa consentire al cinema italiano “invisibile”, cioe’ che non riesce a vedere la luce (il buio) di una sala cinematografica, di acquisire nuove chance di distribuzione sulle altre piattaforme. Ci ha colpito, in particolare, una osservazione del Ministro: “in materia di cultura, ritengo che il governo debba stare un passo più in là… evitando interventi diretti”. In altre parole… apologia del “tax credit”, strumento che riduce l’interventismo discrezionale diretto della mano pubblica, ma che, di fatto, corre il rischio di semplicemente assecondare le logiche del mercato.
Chi redige queste noterelle non condivide un approccio così neo-liberista, e resta convinto che un governo debba orientare, con discrezione, in modo trasparente ed equilibrato, scevro da pedagogismi e paternalismi, l’intervento di sostegno della mano pubblica al sistema culturale, agendo soprattutto sui deficit del mercato (ce ne sono tanti, nello specifico della cultura), e stimolando il pluralismo espressivo e la pluralità d’impresa (processi che il mercato, in sé, da solo, non necessariamente promuove).
Se la mano pubblica finisce per assecondare le logiche di mercato, qual è il senso dell’intervento dello Stato?!
Preliminarmente, il problema di fondo resta comunque quello denunciato infinite volte, anche su queste colonne: qual è il vero stato di salute del sistema culturale italiano?!
Ahinoi… nemmeno il Ministro può dare una risposta esauriente ed accurata a questa domanda.
Le industrie culturali italiane non dispongono di un “sistema informativo” minimamente adeguato, e le politiche culturali nazionali finiscono per essere inevitabilmente nasometriche, determinate dalle sensibilità soggettive del Ministro pro tempore.
Come sta il cinema italiano? Chi può dirlo?!
Come sta l’editoria italiana? Chi può dirlo?!
Alcuni esempi: ci sembra esista un profondo iato tra le occasioni di confronto infra-professionale e le dinamiche di mercato.
Se si partecipa ad una kermesse come il Mia – Mercato Internazionale dell’Audiovisivo o alla Festa del Cinema di Roma, si assiste infatti ad un apparente grande fermento di proposte e di idee, ma queste iniziative sembrano circoscritte ai rispettivi ambiti professionali, sembrano – come dire?! – girare su sé stesse. Gran parte delle idee non divengono opere, gran parte dei prodotti proposti in queste vetrine non arrivano sul mercato…
La nuda verità è che le sale cinematografiche continuano a chiudere (nel silenzio dei più), molte zone d’Italia sono cinematograficamente desertificate (in provincia, ma anche in metropoli come la stessa Capitale), la quota di mercato del cinema “made in Italy” non cresce stabilmente (appena manca un “cine-panettone” di successo), la “fiction” italiana non viene esportata (se non per pochissimi titoli), il Ministero inietta ormai nel sistema danari in quantità (grazie alla legge cinema ed audiovisivo voluta dall’ex titolare del dicastero, Dario Franceschini), ma i risultati concreti del nuovo intervento della mano pubblica ancora non si vedono…
Impressione simile si ricava da una kermesse come la Fiera della Piccola e Media Editoria (l’edizione 2018 va da mercoledì 5 a domenica 9 dicembre): iniziativa di promozione del libro e della lettura senza dubbio valida, ma anch’essa chiusa in sé stessa. Il Direttore della Fiera, Fabio Del Giudice, si vanta che la fiera ha un budget di soltanto 2 milioni di euro, e che soltanto un quinto viene da risorse pubbliche, ma non ricorda che il costo degli stand, per i piccoli editori, è veramente alto (quasi 2mila euro, per pochi metri quadri), ed sembra ignorare che le “start-up” non dovrebbero essere trattate come le imprese consolidate… Certamente la fiera stimola anche vendite significative per gli standisti (che quest’anno son ben 511), a fronte di una previsione di ben oltre i 100mila visitatori dell’edizione 2017, ma, anche in questo caso, esiste un… ruolo della mano pubblica?! Qual è? Non è ben chiaro. Intanto, uscendo dalla Fiera, si registra che anche le librerie, a Roma come in tutta Italia, continuano a chiudere, ed i dati di mercato non mostrano trend significativamente positivi. Crisi crisi crisi, anche in questo settore, al di là di queste effimere operazioni di “spettacolarizzazione” del libro.
In sostanza, in Italia lo Stato sembra attualmente assecondare il mercato (con piccoli e delicati interventi “correttivi”), ma il mercato non è esattamente quel luogo paradisiaco dell’incontro felice della domanda e dell’offerta. Fatta salva l’ipotesi di sposare l’approccio iperottimista teorizzato dai ricercatori del “think-tank” super-liberista dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl), che da sempre sostiene l’opportunità di uno Stato che fuoriesca dall’arena culturale: si legga, in argomento, il pamphlet pubblicato da poco “Il pubblico ha sempre ragione? Presente e futuro delle politiche culturali”, curato da Filippo Cavazzoni (Ibl Libri, 230 pagine, 18 euro).
Quando si esce da un festival cinematografico (si segnala peraltro che sono frequentati per lo più da addetti ai lavori) o da una fiera libraria (e, in questo caso, va apprezzato che ci siano talvolta frequentazioni “di massa”, di pubblico vero, come nel caso dell’iniziativa romana), ci si domanda… a sipario chiuso: ma la fruizione di cinema aumenta realmente, grazie a queste iniziative? ma il consumo di libri aumenta realmente, grazie a queste iniziative?
Le statistiche sui consumi culturali non evidenziano segnali confortanti. Il sistema arranca, sopravvive a sé stesso, si indebolisce anziché rafforzarsi.
Sia ben chiaro: non si sostiene qui che simili iniziative siano inutili, bensì che, sganciate da un piano strategico ed organico di promozione del cinema e della lettura (ed altresì per altri settori dell’industria culturale), il loro risultato sia effimero, apparente, marginale.
E si torna “ab origine”: in Italia, continuano a non esistere strumenti di valutazione dell’intervento pubblico in materia culturale, così come non si dispone di analisi di settore che consentano di comprendere (misurare e valutare) il vero stato di salute dei vari segmenti delle industrie culturali.
Abbiamo sorriso, amaramente, qualche settimana fa, allorquando nell’economia della un po’ improvvisata “indagine conoscitiva” sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) promossa dalla 7ª Commissione del Senato (presieduta dal leghista Mario Pittoni), uno degli auditi ha segnalato che sarebbe indispensabile un… “Osservatorio” (!!!), per capire come sta e cosa sta accadendo al settore dello spettacolo in Italia. Oh, perbacco! E naturale sorge il quesito: chi ha fatto ‘sì che, nel corso degli anni e dei decenni, strutture come l’Osservatorio dello Spettacolo e l’Ufficio Studi del Mibac venissero depotenziate, definanziate, destrutturate, azzerate nella loro funzione istituzionale?! Si osserva una “mano pubblica” che non ha mostrato e non mostra alcuna sensibilità rispetto alla lezione einaudiana del “conoscere per deliberare”. E, alla fin fine, poco rileva se questa insensibilità all’approccio tecnocratico sia stata determinata più dalla “anima” politica o più dalla anima “amministrativa” dei dicasteri competenti.
Uno degli elementi certamente apprezzabili della legge franceschiniana di riforma del cinema e dell’audiovisivo è stato l’aver previsto, per la prima volta in Italia (e già questo la dice lunga…), una “valutazione di impatto” delle nuove norme. Norme che peraltro stanno andando a regime purtroppo con grande lentezza, anche a causa del grave deficit di organico di cui la Direzione Generale del Cinema del Ministero soffre da anni.
Si continua ad alimentare la grancassa retorica dei presunti effetti grandiosi che il “tax credit” a favore del cinema e dell’audiovisivo avrebbe prodotto, ma nessuno – nemmeno il Ministro – può dimostrare l’efficacia di questo strumento: che le imprese se ne avvalgano non sta a significare, infatti, che il “tax credit” stia effettivamente rafforzando il tessuto industriale del sistema audiovisivo, né che stia estendendo lo spettro del pluralismo espressivo…
Ci limitiamo a qui segnalare che è stata la stessa Confindustria Radio Televisioni, qualche settimana fa, a porsi dubbi sulla “inflazione della produzione” cinematografica (vengono ormai prodotti circa 200 film all’anno, la gran parte dei quali resta “invisibile”), ed a segnalare che “si attendono anche i risultati delle valutazioni di ‘valutazione di impatto’ affidata a fine luglio dalla Dg Cinema alla britannica Olsberg Spi Limited. Crtv auspica che le riflessioni intorno al provvedimento permettano di rivederlo in un’ottica più di sistema e meno punitiva per la televisione, centrale nella filiera cinematografica e audiovisiva” (vedi la newsletter di Crtv del 27 settembre 2018). Appunto, quel che ancora manca, è una “ottica di sistema”. E tutto il settore cinematografico ed audiovisivo attende il rapporto di ricerca della valutazione d’impatto che la Dg Cinema ha affidato nel luglio scorso alla Olsberg.
E si ha riprova dello stato confusionale complessivo anche osservando le reazioni – prevalentemente entusiaste – rispetto alle incursioni di un neo-gigante dell’industria dei media qual è ormai Netflix: entra in modo erratico anche sul mercato audiovisivo italiano, senza che si abbia la minima cognizione delle sue strategie globali (peraltro incerte, secondo alcuni analisti finanziari) e “locali” (ovvero nazionali). Produce il film di impronta cinematografica come il decantato “Roma”, per la regia di Alfonso Cuarón, che vince addirittura il 75° Festival di Venezia 2018 nonostante non fosse prevista una sua distribuzione “theatrical”, e produce una commedia politica non rientrante nella tipologia del “cinepanettone” (al di là del titolo) come “Natale a 5 Stelle”, diretto da Marco Risi, presentato martedì 4 dicembre a Roma, film che verrà offerto in esclusiva soltanto sulla piattaforma internet. E poi, invece, “Roma” viene proiettato, ma soltanto per pochi giorni, nel centrale Cinema Farnese di Roma (storica e qualificata “sala d’essai”)… E, anche qui, grande retorica sul fatto che Netflix “apra” il mercato globale (i 190 mercati nazionali nei quali è presente) al cinema ed alla fiction italiana. Apertura virtuale – vorremmo qui rimarcare – perché la presenza in catalogo di titoli “made in Italy” non garantisce certo la loro fruizione.
In totale assenza di una politica italiana a favore della promozione internazionale delle industrie culturali nazionali, ci si affida – nello specifico dell’audiovisivo – alla mano salvifica di Netflix, neo “salvatore della patria” (e dell’italica cultura)?! Ma qualcuno si rende conto della grave assurdità di queste dinamiche e di come ci si stia prendendo in giro da soli?! Questo è veramente un processo strisciante e pervasivo di iperliberismo galoppante: totale assenza di sensato intervento pubblico, strategico sistemico lungimirante.
Sembra prevalere una logica da “pannicelli caldi”… e nessuno sembra rendersi conto delle gravi patologie in atto.
In occasione della 41ª edizione delle Giornate Professionali del Cinema a Sorrento (da lunedì 3 a venerdì 7 dicembre), promosse dall’Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici) dell’Agis, in collaborazione con l’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Audiovisive) e l’Anem (Associazione Nazionale Esercenti Multiplex), l’energica Sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni, ieri pomeriggio, ha confermato il proprio impegno per affrontare una serie di criticità del sistema “theatrical” italiano, con particolare attenzione al dramma della stagione estiva, che in Italia, si caratterizza per la moria delle sale cinematografiche. Il Direttore Generale del Cinema Nicola Borrelli ha segnalato, in particolare, che diviene operativo il decreto sulla destinazione cinematografica delle opere, il cosiddetto “decreto window”, che definisce, ai fini della richiesta di “aiuti di Stato” per i film italiani, i parametri che le opere devono rispettare per accedere ai benefici. Ha specificato Nicola Borrelli: “se un film non rispetta queste specifiche, può comunque accedere agli altri benefici destinati alle opere audiovisive. Il principio è che un’opera deve essere pensata per il prioritario sfruttamento cinematografico. Abbiamo recepito nella norma le finestre che erano regolate da prassi, e sulle quali il Mibac non era mai intervenuto, e mai interverrà; come invece accade in Francia con la legge. Non vogliamo imporre finestre per legge, ma liberare i due terzi dei film italiani che fanno fatica in sala. Il testo è stato concordato con tutte le associazioni del settore; si è raggiunto un equilibrio che consideriamo soddisfacente…”. Anche qui, “mano pubblica” – come dire?! – discreta e delicata: i francesi intervengono in modo energico, noi italiani con modalità “soft”. Siamo sicuri che si tratti dell’approccio giusto?!
Si ricordi che il decreto mantiene i 105 giorni di “finestra” per i film italiani; per i titoli che rimangono in sala 3 giorni (ma non nei festivi e nei weekend), la finestra viene fissata a 10 giorni; se, dopo 21 giorni, un film non ha raggiunto 50mila presenze, avrà una finestra di 60 giorni…
Non entriamo qui nel merito delle tecnicalità dell’intervento, ma quel che ci si domanda è: siamo proprio sicuri che basti un simile provvedimento per consentire ai film italiani di trovare uno “sbocco” alternativo alla sala cinematografica?! E questo sfruttamento parallelo/alternativo produce flussi reddituali minimamente significativi per chi investe, e, soprattutto, estende realmente l’incontro dell’“offerta” con la “domanda”?! E, ancora, il sistema audiovisivo italiano ha veramente necessità di 200 titoli l’anno, se questi film si scontrano con l’impossibilità di essere distribuiti, ovvero – alla fin fine – fruiti?!
Intorno a Netflix, peraltro, temiamo si stia poi alimentando la stessa “grande illusione” che, a trecentosessanta gradi, si registra intorno alle capacità fantastiche di un Google o di un Facebook o di un Amazon, etc., grandi “moltiplicatori” di libera impresa, di democrazia diretta e finanche cultura creativa: trionfo del mercato miracoloso…
Crediamo che una risposta concreta (ed al tempo stesso un’ulteriore domanda) a queste domande sia rappresentata sintomaticamente dalla lettera che Maurizio Totti, Amministratore Delegato di Colorado Film Production, ha pubblicato ieri sul portale della testata specializzata “Box Office” (diretta da Stefano Radice), intitolata “Appunti per una riflessione”. Il produttore lamenta il (mal)trattamento del film che ha realizzato, per la regia di Guido Chiesa, ovvero sul “senso” stesso della sua attività imprenditoriale, in un sistema di mercato così mal concio. Si domanda Maurizio Totti: “Perché lavorare un anno intero, forse più per produrre un film, di potenziale successo come ‘Ti presento Sofia’, per poi non vederlo programmato sin dal primo spettacolo del primo giorno? Solo perché lo Stato mi incentiva con il tax credit? E siamo sicuri che senza una approfondita e condivisa riflessione sul tema, non venga in mente a qualche ministro di togliere di mezzo le agevolazioni fiscali, cosi da mettere definitivamente la parola ‘Fine’, al cinema italiano? Tranne qualche eccezionale fenomeno, a cui verrà riservato il comportamento da blockbuster americano? Forse, oltre agli incentivi alla produzione, occorrerebbe destinare una quota di intervento anche a supporto della programmazione nelle sale, come qualcuno sta cominciando a sostenere anche tra i distributori?”. Conclude Totti, discretamente sconfortato: “qui alle Giornate, sento da circa 25 anni due domande senza risposta: come debellare la pirateria e come allungare la stagione. Io ne aggiungerei una terza: ci interessa che esistano dei film italiani da proiettare nelle sale italiane?”.
La lamentazione / denuncia di Totti è veramente sintomatica di come la politica culturale italiana non stia ancora affrontando le criticità del mercato in un’ottica – giustappunto – “di sistema”.
E, a proposito di Netflix, ci diverte osservare come abbia risposto ad alcune nostre semplici domande (sul budget del film “Natale a 5 Stelle” ovvero sulla strategia di marketing per il mercato italiano o anche soltanto sulla quantità di abbonati in Italia…): “Netflix non rilascia numeriche relative a utenti locali o dati su investimenti e budget di produzione”. Prendiamo atto, con… inquietante rammarico.
*Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
(Ha collaborato Carla Di Tommaso)