A Milano un ragazzo del Camerun ci mette mesi ma trova lavoro e contratto con un progetto dei sindacati. Col nuovo decreto è già senza “casa”. Francis Shemisi, vice direttore del Cas di via Corelli, sarà licenziato il 15 dicembre. L’allarme di operatori e sindacati
MILANO – Il primo a pagare dazio e perdere l’accoglienza è un giovane e simpatico ragazzo del Camerun, titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari, la protezione abolita dal recente decreto immigrazione e sicurezza convertito in legge dello Stato a inizio dicembre. Lui parla italiano, lavora per una multinazionale del commercio nel centro di Milano e dopo un tirocinio formativo ha appena firmato un contratto. Un percorso cominciato grazie al progetto “Labour Int”, sperimentato in Italia, Germania e Belgio su iniziativa della Confederazione europea dei sindacati (Ces). A Milano lo hanno attuato le sigle di terziario, turismo e servizi di Cisl, Cgil e Uil. Lo hanno fatto sotto lo slogan “dall’accoglienza al lavoro”. Proprio per scendere sul terreno di chi non vuole vedere nelle città gruppi di persone immigrate che non lavorano e stazionano nelle piazze o sui marciapiedi: grazie a Labour Int, in 40 fra rifugiati e richiedenti asilo ospitati in vari centri d’accoglienza del capoluogo lombardo hanno prima seguito corsi di formazione linguistica e professionale e poi iniziato un tirocinio lavorativo. Da cui è nato un rapporto di lavoro stabile.
“Dopo lo stage, 25 di loro sono stati assunti con contratti anche da tre anni” spiega Maurizio Bove, responsabile Dipartimento politiche migratorie della Cisl di Milano, durante il convegno di lunedì 10 dicembre “Decreto Salvini: fine dell’integrazione e ritorno al lavoro nero”, organizzato nella sede del sindacato cattolico in via Tadino. Fra questi 25 con un lavoro anche il giovane del Camerun. Che però ha già ricevuto il check out dalla Prefettura. Deve lasciare la struttura di Cesano Boscone che lo ospita perché le nuove regole stabiliscono così: chi ha quel permesso di soggiorno non ha diritto all’accoglienza, nemmeno temporanea in attesa di raggiungere l’autonomia lavorativa e, quindi, abitativa. Come lui altri 9 e solo fra i migranti coinvolti nel progetto dei sindacati milanesi. “Ci sono 10 persone con permesso umanitario, altri con ricorso pendente ma che provengono da Paesi che sono ritenuti sicuri” spiega Bove a margine dell’incontro. Cosa accadrà quindi? “Che 25 persone perderanno il permesso di soggiorno, con quello anche il contratto e il lavoro che già oggi hanno. Questo accadrà con buona pace delle energie investite dagli immigrati stessi nello sforzo di integrazione e nel non abbandonare questo percorso durato mesi, verranno sperperati i soldi dei sindacati, degli enti bilaterali coinvolti, dei datori di lavoro che li hanno formati e assunti oltre alle risorse della comunità europea che ha finanziato il progetto Labour Int. Ma scordatevi di vedere questi ragazzi rimpatriati. Sono persone che finiranno in strada”.
“Come si può condannare all’irregolarità e all’umiliazione per decreto delle persone che si sono impegnate fino in fondo in questo percorso e che, quando trovano un mestiere, vengono rispedite nel lavoro nero, nell’irregolarità, nelle case occupate, nei buchi peggiori della nostra società?” domanda polemicamente in teleconferenza Marco Cilento, senior advisor della Confederazione europea dei sindacati. “Il lavoro è veicolo di inserimento della persona e un’opportunità per l’economia e la società: in Germania e Svezia l’arrivo dei rifugiati ha dato vita a un programma – aggiunge Cilento – che ha prodotto una crescita del pil stimata fra lo 0,5 e l’1 per cento, molto più di quanto oggi anima la discussione fra Roma e Bruxelles sulla finanziaria e il deficit. È stato fatto attraverso l’inserimento lavorativo sia dei richiedenti che delle figure professionali che lavorano con loro: psicologi, servizi pubblici per l’impiego, antropologi”. E aggiunge il sindacalista: “In Italia si preferisce optare per politiche emergenziali e nessun passaggio verso l’economia legale, quasi a voler incentivare l’economia nera. Il decreto Salvini sembra un’agenda che potrebbero proporre le organizzazioni criminali”.
Anche Francis Shemisi, mediatore culturale, ora rimane senza lavoro: lui è il vice direttore del Centro di accoglienza straordinaria di via Corelli, l’ex Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Milano, chiuso anni fa per le rivolte e le condizioni all’interno. Che ora deve trasformasi in un Centro per il rimpatrio (Cpr) da 145 posti, secondo quanto previsto dalla legge Minniti. Lì dentro le persone potranno essere trattenute in uno stato molto simile alla detenzione, ma senza aver mai commesso reati e paradossalmente senza le tutele giuridiche dei detenuti, e per un periodo fino a 180 giorni. Così ha stabilito il decreto Salvini. Via Corelli chiuderà i battenti come centro d’accoglienza il 15 di dicembre, per lavori di ristrutturazione e diventare Cpr entro la primavera. Si attende il bando della prefettura per l’affidamento della struttura a giorni. “In via Corelli ci sono ancora all’interno 136 persone – racconta Francis Shemisi –: il 14 dicembre dobbiamo consegnare le chiavi, ogni giorno stanno facendo trasferimenti. Ieri un gruppo di 30 persone è stato portato a Monza: tra loro c’è chi studia, chi lavora, chi ha presentato ricorsi e ora con gli avvocati è complicato anche solo seguire il tracciato e gli spostamenti”. Per sei persone trasferite nel comune di San Colombano al Lambro, nel lodigiano, ora bisogna attivare gli abbonamenti ai mezzi pubblici, ma in generale “in via Corelli, da quando è Cas, abbiamo integrato al lavoro 140 persone” aggiunge il mediatore. A trasferimenti conclusi ci saranno anche le prime due persone in strada: si tratta di una donna nigeriana single, con fratello neo maggiorenne al seguito. Hanno il permesso umanitario. “Sono regolari” dice Francis, “ma anche loro, fra pochi giorni, saranno sui marciapiedi se non si trovano soluzioni”. E anche gli operatori pagano di tasca propria: “Sono già 27 quelli lasciati a casa e anche io perderò il lavoro. In tutto saranno 70 persone ad essere licenziate”. Ma via Corelli, per Shemisi “è solo l’inizio: in Italia su 36mila operatori nel mondo dell’accoglienza circa la metà rimarranno senza un mestiere”.
Francis Shemisi viene dal Congo e, oltre che vice direttore in via Corelli, è il referente dei Mediatori culturali dell’associazione Acuarinto, realtà del terzo settore di Agrigento che da 26 anni lavora nel settore in sei diverse regioni d’Italia. Dentro i centri d’accoglienza e non solo. Inclusi quelli di espulsione gestiti da Gepsa – la multinazionale francese del gruppo Engie (energia, gas e rinnovabili, si tratta della ex Gdf Suez) che Oltralpe è specializzata in gestione e logistica di carceri e strutture detentive. E che, per esempio in Italia, ha in mano il Cpr di Corso Brunelleschi a Torino dopo aver avuto per anni anche quello di Ponte Galeria a Roma. Per Torino, alla gara d’appalto di settembre 2014 Gepsa si presentò come mandatario nel raggruppamento temporaneo d’impresa – proprio con l’associazione culturale Acuarinto come mandante – e fu l’unica partecipante, offrendo il prezzo di 37,86 euro giornalieri più Iva a persona trattenuta, su una base d’asta di 40 euro con procedura al ribasso. Così si è aggiudicata la gestione del centro. E proprio da Torino è arrivato a Milano il prefetto Renato Saccone, insediatosi in corso Monforte meno di un mese fa. “Fonti di stampa sostengono, senza essere smentite, che per i Cpr la retta giornaliera adesso sarà da 32,80 euro – ha detto in polemica Silvia Bartellini, Presidente della cooperativa Passe-partout che gestisce il progetto di Casa Chiaravalle a Milano –: mentre invece per l’accoglienza diffusa, anche sulle donne vittime di violenza, che facciamo noi la retta è stata tagliata a 19 euro”. Il riferimento è ai famosi 35 euro per migrante che ora vengono sforbiciati per chi è accolto nelle strutture, mentre per la “detenzione amministrativa” nei Cpr – pratica contestata da vari studiosi del diritto – quei soldi rimangono invariati.
Bartellini aggiunge anche un altro dato su chi finirà in strada: “Secondo la prefettura sono 240 le persone nei centri milanesi che avranno 72 ore di tempo per lasciare le strutture una volta ricevuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari”. Un numero da rivedere al rialzo, perché le 240 persone sono solo quelle registrate sul portale della prefettura, ma i sistemi dei diversi uffici pubblici non sono necessariamente integrati. Nelle settimane scorse ha parlato di 900 nuovi senza dimora l’assessore alla politiche sociali di Milano, Pierfrancesco Majorino. Ancora più elevate (3mila entro il prossimo anno in città) le previsioni fatte già a ottobre da Alberto Sinigallia, Presidente di Fondazione Progetto Arca, colosso dell’accoglienza in Italia. Per Sinigallia infatti il problema non riguarderà solo chi ha il permesso umanitario, ma tutta la filiera che porta a riduzione e smembramento del sistema di accoglienza Sprar, ai dinieghi ricevuti dai richiedenti asilo con annessa cancellazione di un grado di giudizio per i ricorsi e alla maggiore celerità con cui le Commissioni territoriali per la protezione internazionale evadono oggi le domande. (Francesco Floris)