Nel suo commovente “Santiago, Italia”, Nanni Moretti si sente pretendere dal generale Iturriaga (in carcere da 10 anni per sequestro di persona e omicidio) un’intervista “imparziale”: perché in Cile “di vittime ce ne sono state da entrambe le parti”, “abbiamo ucciso noi e hanno ucciso loro”, anzi “io ho perdonato loro, loro non hanno perdonato me”. Si tratta dell’unica volta in cui il regista entra nell’inquadratura, per dire due volte “Io non sono imparziale”.
Il generale pinochetiano Iturriaga non è un relitto della storia. Di figure di questo tipo, che pretendono l’imparzialità, ce ne sono state altre e ce ne sono molte oggi.
Sono quelle che pretendevano che Anna Politkovskaya rimanesse imparziale tra Putin e i civili ceceni massacrati. Sono quelle che pretendono che Federica, Paolo, Marilù, Lirio, Graziella, Tiziano (e decine di altri giornalisti italiani) restino imparziali davanti alle intimidazioni e agli omicidi mafiosi; che Daphne fosse imparziale di fronte alla corruzione e alla criminalità; che Maria quando va al Cairo sia imparziale tra al-Sisi e Giulio Regeni; che Antonella, quando scrive della Turchia, sia imparziale tra Erdogan e i 160 giornalisti in carcere; che Nello, Angela, Sergio, Annalisa e tanti altri siano imparziali tra Open Arms e Salvini.
Si può essere imparziali tra due poteri forti, ad esempio tra l’assadismo-putinismo e il jihadismo e i suoi alleati in Siria. Ma i giornalisti che difendono i diritti umani devono prendere una parte: la loro professione e il loro impegno consistono nella denuncia rigorosa e documentata, nella difesa delle libertà (di stampa, ma non solo), nel dare – come rispose qualche anno fa Robert Fisk, quando gli chiesi cosa fosse per lui il giornalismo – “voce a chi non ha voce”.
Viva la parzialità, allora. E buon 2019 a quella grande comunità di difensori dei diritti umani che è Articolo 21.