L’immediatismo (vetusto connotato della speculazione) che di questi tempi sembra guidare le sorti del nostro pianeta e la sua economia in primis, ha fatto scambiare la fragile tregua raggiunta tra Stati Uniti e Cina al G20 di Buenos Aires con una pace su cui riassemblare la situazione ex antes. Sono poi bastati 10 minuti di sia pur intenso dialogo tra Trump e Putin in una pausa dei lavori, per accreditare un mezzo ripensamento del presidente nordamericano che alla vigilia aveva cancellato il previsto incontro face to face con il collega russo per protestare contro il suo egemonismo armato ai confini con l’Ucraina. E le borse di tre continenti, sempre insidiate da bolle speculative che nel loro saliscendi a noi ricordano i fiumi carsici, sono ripartite con fanfare e tamburi.
E’ paradossale ma non sorprendente che un’intesa bilaterale (in gran parte ancora appesa alla sua implementazione) appaia come il più eclatante risultato del G20 appena celebrato nella capitale argentina. La trattativa tra Trump e il cinese Xi Jinping, questa sì prolungata e affollata di assistenti e testimoni, ha ottenuto nell’immediato di alleggerire le tensioni tra i due paesi che preoccupano il mondo intero in quanto contribuiscono a intralciarne riordino e crescita economica. Altri incontri di rilievo e la firma del nuovo trattato commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada in cambio del vecchio Nafta, hanno dato contenuto al vertice sudamericano. Ma la somma di vari rapporti bilaterali non fanno un avvenimento multilaterale. Al contrario, ne smentiscono la ragione sociale.
La reazione degli USA guidati da Trump al contenzioso con la Cina ricorda la politica del conteinment di John Foster Dulles contro l’Urss di Stalin, il nocciolo duro della guerra fredda, ben più che il bastone e la carota di Kissinger nei confronti di Mao e Zhu Enlai negli anni Settanta. E’ più simile al dividi et impera che non al principio integra e guida grazie a cui è stato costruito anche con i repubblicani Bush padre e figlio oltre che con i democratici Clinton e Obama la rete dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), i grandi trattati multinazionali tipo Trans Pacific Partnership (TPP), l’accordo con l’Iran. Tutti vincoli non privi di aspetti controversi, ma volti a produrre vantaggi reciproci che tuttavia non dovevano porre in discussione la supremazia degli Stati Uniti.
La vertiginosa crescita della Cina in quest’avvio di millennio, la sua eccezionale dimensione umana, geografica, culturale, l’anomalia di un’economia aperta e nondimeno eterodiretta da un partito la cui storia -fanno capire, con tutto rispetto, i suoi massimi dirigenti- della democrazia come l’intendiamo in Occidente non sa che farsene, hanno fatto saltare le regole del gioco imposte dagli Stati Uniti. Quanto meno quelle fin qui seguite, a cominciare dal multilateralismo: un pollaio in cui se l’idea di uno sviluppo tecno-scientifico graduale e condiviso viene sostituita con quella di una supremazia assoluta, due galli sono troppi per convivervi. Trump e soprattutto gli interessi che lo tengono alla Casa Bianca non rinnegano la globalizzazione; gli basta disordinarla per impedire alla Cina di dominarla. I rischi non li spaventano.
Se si accetta la verosimiglianza di questo quadro geopolitico, l’obsolescenza del multilateralismo risulta purtroppo evidente. Anche perché nella speranza che qualche incidente di percorso, l’imprevisto che talvolta devia le intenzioni, l’arrogante onnipotenza d’un governante o il cinico disegno di qualche malintenzionato non ci trascinino in qualche catastrofe bellica maggiore di quelle già in atto, questa linea di confronto strategico sembra destinata a restare valida anche nel caso in cui Trump non venga rieletto. Non mancano del resto e anzi sono sempre più numerosi gli osservatori che vedono nella crisi del multilateralismo un effetto delle fratture sociali che incrinano la governabilità di molti dei paesi coinvolti.