Sarà stato il destino, oppure il calendario incurante degli accadimenti politici, ma proprio io, in quanto cronista di giudiziaria e dunque infima sciacalla e puttana, mi trovo a seguire un piccolo processo per l’omicidio di una puttana, uccisa appunto perché quel mestiere non voleva più farlo e aveva intenzione di denunciare i suoi aguzzini. Nel leggere i capi di imputazione e, ancor più, la relazione dell’autopsia, mi ero già convinta di quanto male, tutti noi, questa società distratta e consumista, aveva fatto alla povera vittima. Ora, senza alcun preavviso né accordo, le parole di alcuni pseudo colleghi che militano in un movimento politico controllato da una società a responsabilità limitata, mi hanno scaraventato ancora più a fondo nelle pagine del processo sul delitto di Gloria Pompili, presa a bastonate una sera di agosto, con lesioni alla mandibola, alla spalla, alle costole, una ferita da taglio sul cuoio capelluto, morta sul ciglio della strada regionale su cui viaggiava per tornare a casa dopo una giornata passata a battere a sud di Roma. Era a bordo della Bmw che la zia e lo zio avevano acquistato con i soldi provento della prostituzione di Gloria. Prima possedevano una scalcagnata utilitaria della Renault.
Questa ragazza di appena 25 anni faceva la puttana ma non era propriamente una puttana, lo avevano capito anche le altre puttane e trans che battevano sullo stesso stradone. Loro sono stati i testimoni più importanti delle ultime ore di vita e del fatto che Gloria venisse regolarmente picchiata dai parenti papponi e non dagli abituali protettori rumeni e albanesi che seguono le prostitute. Dunque lei era diversa. Era sola, poiché non aveva un protettore classico; era taciturna perché non poteva ammettere di essere maltrattata altrimenti ne avrebbe prese delle altre e, soprattutto, sarebbero stati picchiati anche i suoi due figli piccoli, di cinque e tre anni. Bambini che gli zii papponi portavano insieme a loro, in attesa che “mamma guadagnasse i soldi”. Gloria si prostituiva anche a casa e quando riceveva i clienti i suoi figli venivano appesi, probabilmente dagli zii aguzzini, ad una ringhiera, sospesi nel vuoto dentro una cassetta di plastica. Tutto questo è sfuggito alla nostra società tanto preoccupata dei migranti, è stato sottovalutato dai servizi sociali o, più probabilmente, gli assistenti sociali del Comune erano pochi per seguire le tante Gloria che ci sono in giro.
Ci sono stati tagli ai fondi e al personale e dunque non c’era tempo né modo per salvare la vita a Gloria né per risparmiare violenze fisiche e psicologiche ai suoi bimbi, i quali, solo ora che la loro mamma è stata uccisa sono stati affidati a una casa famiglia. I bambini sono anche parte civile contro la zia della madre e il di lei marito, autori materiali del delitto. E’ dura seguire le udienze di questo processo in Corte d’Assise, ma io da brava puttana e sciacalla lo farò, come sempre, anzi no, questa volta mi impegnerò di più, credo, perché la storia della vittima-puttana la voglio raccontare nei minimi dettagli, in quanto quella ragazza mi fa pena adesso, da morta e anche per quello che ha patito da viva. E spero che noi giornalisti-puttane raccontando bene questa vicenda giudiziaria, fino alla fine, fino alla auspicabile condanna possiamo contribuire a fare qualcosa non solo per riscattare lei, i suoi bambini e le ragazze che, come lei, sono costrette a vendersi per vivere, ma anche per far comprendere ai nostri nervosi ministri che per salvare questo Paese è necessario potenziare i servizi sociali, l’assistenza ai figli delle puttane, serve giustizia e severità verso gli aguzzini. Ecco, ripensare alla rete pubblica di assistenza alle figure fragili e a rischio, potrebbe aiutare alcuni ministri e politici a fare qualcosa di meglio che non insultare i giornalisti. Parola di una puttana. Anno domini 2018.
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