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Vade retro fake

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Verso la parte conclusiva del suo mandato l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sta prendendo posizioni più nette sul tema della “disinformazione”. Su tali argomenti l’Agcom ha promosso lo scorso venerdì 23 un interessante convegno, dal titolo eloquente “Giornalismi nella società della disinformazione”. A tirare le fila i commissari Mario Morcellini e Antonio Nicita insieme al direttore del servizio economico e statistico Marco Delmastro, con un panel articolato: dai giornalisti Lucia Annunziata e Alessandro Barbano, al direttore generale della Federazione degli editori Fabrizio Carotti, al consigliere della Corte dei conti Vito Tenore, al presidente della sezione radiotelevisiva della Confindustria Franco Siddi, a Marco Bardazzi dell’Eni, ad uno dei più acuti studiosi delle trasformazioni dell’informazione nell’era degli algoritmi Michele Mezza , a Paolo Liguori di Mediaset. A fare da “padroni di casa” il presidente dell’ordine dei giornalisti Carlo Verna e il vicesegretario della Federazione della stampa (professionista precario) Mattia Motta.

Il problema cruciale affrontato riguarda il crinale che con deboli difese separa le opportunità enormi offerte dalla rete e gli effetti dannosi della cosiddetta “disintermediazione”. Morcellini ha chiarito che la velocità della comunicazione digitale non riesce a dar luogo a vere sedimentazioni culturali, mentre la crisi delle vendite dei giornali (cui si possono aggiungere i drammi delle agenzie formative e della ricerca) indebolisce gli standard di qualità del racconto. L’universo giornalistico, costituito ormai in maggioranza da precari e precarissimi, viene svuotato.

E’ bene chiarire che la disinformazione è una patologia antica e pervicace: silenzi, omertà, soggezione ai poteri forti, depistaggi hanno accompagnato l’epoca analogica. Quindi, è fuorviante concentrare gli strali solo sulla rete. Quest’ultima amplifica le fake, ma non le inventa. Cosa sono, infatti, davvero le fake? Non solo la violazione dell’obbligo deontologico della verità, bensì un modello di business, come sottolineato da Marco Bardazzi, autore con Massimo Gaggi del preveggente “L’ultima notizia”. Le notizie false hanno una durata di tre giorni in media, costruendo poli attrattivi di pubblicità. Quest’ultima ormai cresce solo in Internet e rappresenta una componente dell’accumulazione “primitiva” digitale. Ma è solo una faccia di un complesso di convenienze vastissimo. Michele Mezza ha portato il grido di dolore: i dati sono comprati e venduti con una potenza di fuoco inedita. Facebook, che ha dovuto nei giorni scorsi chiedere scusa anche a Soros, è stato protagonista di una cessione di milioni di profili di navigatori ignari. L’Agcom ha messo a disposizione un ricchissimo studio sulle fake, che sono l’anello fondamentale di una catena del valore. “…La viralizzazione del contenuto fake è resa possibile dalle modalità di consumo dell’informazione sui social (specie per le tematiche individuate come oggetto di disinformazione), che avviene nell’ambito di comunità chiuse, distinte e polarizzate…”. Politica, cronaca, scienza sono i principali oggetti del desiderio. Dunque: discesa dei livelli di scolarità e di alfabetizzazione, crepuscolo della lettura dei quotidiani, passivizzazione della rete (contro le speranze originarie) sono una miscela orribile.

La crisi della rappresentanza origina anche da qui.

La ricetta ipotizzata tocca il nervo scoperto del giornalismo, oggi così lontano dall’età eroica che ne ha fatto un riferimento intellettuale. Ma la “mediazione” va ricostruita, non vilipesa.


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