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Turchia, il più grande carcere al mondo per giornalisti, dove il regime di Erdogan uccide il pensiero

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In Turchia se sei giornalista non vieni ucciso a bruciapelo con raffiche di mitra o un colpo di pistola alla testa come in Messico. Uccidono il tuo pensiero, ti chiudono in un carcere e non ti permettono più di vedere il mondo. Come è avvenuto per Ahmet Altan, tra i più noti scrittori e giornalisti turchi che non si è mai piegato al potere del regime istaurato dalla presidenza di Recep Tayyip Erdogan. Ahmet è stato condannato all’ergastolo aggravato insieme ad altri cinque colleghi, tra cui un’altra veterana della stampa in Turchia, Nazli Ilicak, 73 anni e tanto coraggio e dignità.

Sono almeno 170 i giornalisti in carcere tra Istanbul e Ankara con l’accusa di aver sostenuto lo sventato colpo di Stato del 15 luglio 2016 e di appartenenza a organizzazioni terroristiche.

Articolo 21, insieme ai più importanti organismi internazionali di tutela dei giornalisti, porta avanti una campagna contro il ‘bavaglio turco’ e ha lanciato più volte appelli alle istituzioni italiane e europee affinché non restino silenti di fronte ai gravi abusi compiuti in Turchia dal fallito golpe, in particolar modo attraverso il controllo dell’esecutivo sulla giustizia e il generale degrado dello Stato di diritto nel Paese.

Sotto le spoglie dello Stato di emergenza e della lotta al terrorismo, decine di migliaia di persone sono state vittime di una repressione arbitraria che continua a peggiorare e colpisce tutte le categorie della popolazione, giornalisti, difensori di diritti umani, avvocati, giudici, insegnanti, accademici, ricercatori. 

Almeno 150.000 funzionari pubblici sono stati licenziati, oltre 50.000 persone sono finite in carcere, più di 170 giornalisti sono in detenzione.

Per quanto riguarda i nostri colleghi, obiettivi prioritari di questa persecuzione, in Turchia è in atto una vera e propria purga dell’informazione che mira a subordinare intellettuali e stampa libera al potere esecutivo soffocando ogni anelito di dissenso.

A fronte di tale situazione i leader dei paesi occidentali nelle occasioni di incontro con il presidente di un paese che ancora chiede l’adesione all’Unione europea ed è membro del Consiglio d’Europa, hanno sempre assunto atteggiamenti ambigui e timidi. Al massimo qualcuno ha avuto il ‘coraggio’ di far presente all’interlocutore quanto pregiudizievole potesse essere il venir meno allo stato di diritto in Turchia e di rischiare in tal modo di determinare un’incompatibilità con i valori democratici dell’Europa. 

Nonostante questa situazione perduri da oltre due anni e abbia assunto proporzioni inimmaginabili, la Turchia si è trasformata nel più grande carcere al mondo per giornalisti, Erdogan continua a restare un partner ineludibile. Non solo per l’Europa.
Poco importa se alla base delle accuse nei confronti di centinaia di giornalisti ci siano solo qualche articolo e o apparizioni televisive, come nel caso Cumhuriyet che ha visto  tra i 18 redattori e dipendenti del quotidiano di opposizione imputati nel processo
 il noto giornalista investigativo Ahmet Sik.

Non c’è nulla che sostenga l`imputazione di golpismo e di legami con gli uomini accusati di essere ideatori del push sventato. Eppure sono stati condannati. 
Non possiamo che essere, tutti noi, preoccupati e delusi per la flebile reazione a tutto questo.

A nulla è valsa la sentenza della Corte Costituzionale che aveva disposto la scarcerazione degli imputati perché erano stati violati i loro diritti umani. Le sentenze Zaman e Cumhuriyet hanno decretato la morte dello stato di diritto in Turchia.

Nessuno ha più alibi. Eppure si continua a tacere e a essere conniventi con un regime che ormai mostra chiaramente il suo volto autoritario.


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