Il Théâtre des Bouffes du Nord ha portato all’Argentina di Roma il racconto sull’impossibilità d’amare. In questi giorni lo spettacolo è a Bologna. Prossima tappa Prato. C’è tanto di quel dolore dietro La maladie de la mort, un tormento, un’assenza così spaesante. Nello scriverlo la mano della Duras trema, la sua voce impastata detta poi al giovane segretario e compagno Yann che si sforza di battere a macchina le minime varianti. Duras consegna venti pagine a Lindon, il suo editore, e decide di ricoverarsi, di intraprendere una cura di disintossicazione dall’alcolismo. È il 1982. Il racconto è costruito sul “Vous”, l’uomo cui la voce narrante si rivolge e che paga una donna per cercare di imparare il desiderio e l’amore. La donna è l’“Elle”, arriva la notte e, in cambio di denaro, sottomette il suo corpo allo sguardo , alla curiosità, alla ricerca dell’uomo.
La maladie de la mort si offre alle interpretazioni e oggi, tra le piste del testo, la regista inglese Katie Mitchell sceglie la contaminazione di cinema e teatro. La scena si trasforma in un set con cameramen e fonici: la stanza d’albergo in cui lei, qui Laetitia Dosch, e lui, Nick Fletcher, si incontrano. Quel che avviene sul palco, ma anche quello che non avviene, i ricordi, i pensieri, sono proiettati su un grande schermo. Le telecamere diventano lo sguardo degli attori, che lo spettatore osserva sul video, simultaneamente all’insieme, o almeno così dovrebbe essere. Alla sinistra della platea, in una cabina di registrazione, l’attrice Jasmine Trinca legge in italiano le parti narrative.
Qualcuno obietterà che è tutto già visto e siamo saturi di approcci metascenici. Il punto, però, non è questo. L’idea di rendere la Duras contaminando settima arte e palco rispecchia bene la scrittura ‘atmosferica’ e filmica dell’autrice, in cui visione e rarefazione si compenetrano. Il fatto, abbastanza oggettivo, è che lo spettacolo non emoziona, fa riflettere, come fa riflettere il racconto stesso, ma non emoziona. Questo non delegittima l’operazione, però la limita. Sul piano formale l’allestimento è ammirevole: l’interpretazione dei protagonisti si adegua al dramma disadorno che li attraversa, le sequenze video restituiscono paesaggi della memoria, silenzi, e mettono in relazione interno ed esterno, non solo in senso spaziale, ma anche sul piano della narrazione, tra ciò che è nella storia e ciò che nel racconto la sfiora, eppure la determina, collocandosi anche solo allusivamente nel passato, nell’inconscio. Quanto accade sulla scena è ritrasmesso sullo schermo in presa diretta, così sembra, offrendo, come si è detto, un arricchimento del punto di vista. Che questa visione esteriormente corretta precipiti nell’animo dello spettatore e si trasformi in significato profondo e generativo non è certo, anzi è piuttosto incerto. Il video è preponderante, quasi cancella il lavoro pur mirabile degli attori sul palco e questo squilibrio costa moltissimo, trasforma una tragedia, tutta umana, dell’incomunicabilità emotiva e fisica in una sessualità gelida e disperata, spezzata, poco espressiva.
La lettura della Mitchell, sostenuta dall’intervento drammaturgico di Alice Birch, pone al centro della riflessione il rapporto tra uomo e donna, la malattia della morte come l’incapacità di amare, di comprendersi fra maschile femminile, con un’intenzione forse più interessante rispetto a quella dell’autrice. Tuttavia l’eliminazione del tema dell’omosessualità di lui, abbastanza evidente nel testo, rischia di travisare l’inquietudine della Duras, inquietudine anche biografica, rischia l’eccesso di politicamente corretto, come il rischio dell’eccesso di formalità e di inautenticità, e dunque di noia, si corre nell’impianto dello spettacolo.In un’intervista del 1997, Michel Piccoli – mentre insieme a Lucinda Childs recitava il testo diretto da Bob Wilson – ha detto: “Ho interpretato una pièce così sensuale, sanguigna, fisica, strana e anche così segreta, e le cose segrete mi divertono tanto”. Forse è questa carnalità che manca nella costruzione della Mitchell, una carnalità, una sensualità ferita, dolente, ma vera, tremenda e capace di interrogare la nostra intimità.