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Spazi pubblici in disuso a Roma: il caso delle ex rimesse Atac

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Il caso dell’ex rimessa Atac, un tentativo di rigenerazione urbana promosso dalla Giunta Raggi, che corre il rischio di stimolare paradossalmente logiche di speculazione immobiliare.

Se ieri, su queste colonne, abbiamo focalizzato l’attenzione su una vicenda tipicamente italiana (che abbiamo definito l’ennesimo “scandalo italiano”) ovvero della mala gestione del patrimonio immobiliare sequestrato alla criminalità (vedi “Key4biz” del 21 novembre, “Confiscati Bene 2.0, il primo portale per il riutilizzo di 15mila beni confiscati alle mafie”), oggi dedichiamo attenzione ad una vicenda altrettanto attuale  e, riteniamo, non meno grave: la gestione del patrimonio pubblico immobiliare, soprattutto per quanto riguarda beni lasciati in disuso, concentrandoci sul “caso Roma”.

Questa mattina, in una non granché affollata conferenza stampa, la sempre energica Sindaca di Roma Capitale Virginia Raggi (peraltro, arrivata con un’ora di ritardo e senza scusarsi) ha presentato con entusiasmo (eccessivo) quella che ritiene “un’altra sfida vinta” dalla giunta grillina: una rifunzionalizzazione a scopi socio-culturali di 3 “rimesse” dell’Atac – Azienda per i Trasporti Autoferrotranviari del Comune, abbandonate da anni e decenni. Si tratta di tre rimesse in disuso, di proprietà dell’Atac, che avranno nuova vita, diventando luoghi di incontro e “location” per eventi socio-culturali. Sulla carta, un’interessante operazione di “rigenerazione urbana”, ma il problema è il carattere effimero dell’iniziativa ed il rischio che, al di là della buona volontà, finisca per agevolare l’ennesima operazione di speculazione immobiliare (la vendita dopo la riqualificazione) di cui certamente la Capitale non ha proprio necessità.

Ha sostenuto Virginia Raggi, con la sua tipica fierezza: “la sfida è stata vinta. Diamo nuova vita a edifici abbandonati facendoli diventare contenitori di cultura. Spazi che restituiamo ai cittadini attraverso manifestazioni, eventi, mostre, ma anche attivando preziose sinergie come quella con la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea. Un bando pubblico ha permesso di affidare la gestione di queste attività alla società Ninetynine Urban Value”.

I tre depositi sono quello “Vittoria” di Piazza Bainsizza, ora denominato “PratiBus District”; l’ex rimessa Sta-Atac “Tuscolana” in Piazza Ragusa, che adesso prende il nome di “Ragusa Off”; e quella di San Paolo in via Alessandro Severo, che aprirà nelle prossime settimane con il nome “San Paolo Garage”.

PratiBus District” è la prima realtà ad entrare in dialogo con la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea. I cinquemila metri quadrati dell’edificio industriale degli anni ‘20 ospiteranno da oggi “Animal House”, una piccola esposizione che presenta alcune delle opere di David Rivalta. “Ragusa Off”, con i suoi 11 mila metri quadrati, diventa il più grande spazio per eventi disponibile a Roma in questo momento. “San Paolo Garage” si sviluppa su una superficie di settemila metri quadrati con diverse zone all’aperto e sarà pronto nel mese di dicembre.

Ha dichiarato il Presidente dell’Atac, Paolo Simioni: “l’operazione di cui oggi vediamo i primi risultati va nella direzione giusta, perché ci consente di valorizzare alcuni immobili da anni in disuso e fonte di spese improduttive. Questi ex stabilimenti, in attesa che si arrivi alla vendita, ritornano alla città trasformati da non luoghi a luoghi. L’operazione si caratterizza per 3 “r” significative: recupero, risparmio e reddito. Oneri e onori a Ninetynine”.

Tutto molto bello…

Ma proviamo a capire meglio: la municipalizzata del trasporto pubblico romano (che ha oltre 13mila dipendenti e si caratterizza per enormi disservizi) è in crisi storica, aggravatasi negli ultimi anni, ed è ad un passo dal crack (dall’agosto 2017, l’azienda non riusciva più a pagare gli stipendi, i fornitori non rispondevano al telefono ed erano arrivati i primi pignoramenti dei conti correnti). Per evitare il fallimento, a fine luglio 2018, il Tribunale di Roma ha approvato un “concordato preventivo in continuità”, nella cui economia è prevista la vendita di questi 3 depositi. Si tratta di una procedura con cui una azienda in crisi può tentare il risanamento attraverso la continuazione dell’attività, evitando il fallimento. Il Tribunale di Roma, a seguito del parere della Procura, ha valutato positivamente il lavoro effettuato dalla società del trasposto locale a Roma, concretizzatosi nel “piano industriale” depositato a gennaio 2018 e nella proposta concordataria.

La alienazione di questi immobili è stata oggetto di contestazioni da parte di comitati di quartiere ed associazioni di cittadini (tra i più pugnaci, senza dubbio il Comitato di Quartiere Tuscolano-Villa Fiorelli, presieduto da Rossella Palaggi), che temono che si possano incardinare nel tessuto metropolitano – sotto mentite spoglie – operazioni di speculazione immobiliare, in particolare centri commerciali, con buona pace delle possibili funzioni socio-culturali. In teoria, si tratta di una operazione positiva promossa da Roma Capitale ed Atac, ma, studiando meglio, e guardando dietro le quinte, emergono forti perplessità: anzitutto, va rimarcato che si tratta di 3 immobili che rientrano nella delicata operazione di “concordato” con il quale si sta cercando di evitare il fallimento dell’Atac, sommersa di debiti; questi immobili sono enormi quanto fatiscenti, ed una loro vendita è ardua intrapresa…

A questo punto, cosa combina la Giunta Raggi, ovvero l’Atac?

Propone un bando per una assegnazione temporanea di questi immobili, per 8 mesi, a fronte di un “canone” di 60.000 euro, e di una quota del 25% del totale dei ricavi che la società che li gestirà otterrà dalle “location” e dai vari business correlati alla loro utilizzazione. Se vi dovesse essere una proroga per altri otto mesi, il canone sarebbe di ulteriori 40.000 euro. Un canone basso assai, per “location” complessivamente di decine di migliaia di metri quadri, in zone non esattamente periferiche della città…

Vince la gara, alla quale hanno partecipato 2 imprese soltanto, una società che sta crescendo con ritmi impressionanti, nel business della comunicazione, pubblicità, relazioni pubbliche: Ninetynine srl, presieduta dal giovane (classe 1976) Simone Mazzarelli (e controllata al 100 per cento, a sua volta, dalla T Communication srl).

Si tratta di una impresa che ha appena dieci anni di vita, ma il cui totale di ricavi è impressionante: 3,5 milioni di euro nell’esercizio 2015, che passano a 4,7 milioni nel 2016 ed arrivano a 5,8 milioni nel 2017 (dati tratti dal bilancio acquisito da Registro Imprese). Al di là delle evidenti capacità imprenditoriali, in tempi di crisi, questo andamento suscita qualche curiosità.

Uno dei business della società è sviluppato attraverso la controllata Urban Value, che ha gestito per molto tempo due altri immobili pubblici, il “Guido Reni District” (di fronte al Maxxi – Museo nazionale delle arti del XXI Secolo di Roma) ed il “Palazzo degli Esami” (su Viale Trastevere), ospitandovi eventi, mostre, iniziative artistiche e commerciali. Secondo quel che sostiene Mazzarelli, l’esperienza del Guido Reni District “ha generato un indotto pari a 37 milioni di euro, creando 283 posti di lavoro con circa mille imprese coinvolte”. Posti di lavoro certamente… effimeri, ci sia consentito osservare. Entrambi gli immobili sono di proprietà pubblica, ovvero di Cassa Depositi e Prestiti spa (Cdp).

Tutto molto bello, nel breve-medio periodo.

Ma… poi, nel lungo periodo?! Dopo che queste “location” pubbliche sono state utilizzate come spazi per iniziative – tutte decise con discrezionali logiche private (e quindi naturalmente commerciali) – cosa sarà della loro destinazione finale?! La questione essenziale e controversa (e politica) è proprio questa.

A fronte di inerzia delle precedenti amministrazioni capitoline, la Giunta Raggi decide di mettere in atto operazioni di “rigenerazione temporanea”.

A parte il fatto che il processo decisionale su quali iniziative allocare in questi spazi passa dal “pubblico” al “privato” (è Ninetynine a valutare e decidere, non Roma Capitale), il carattere temporaneo delle iniziative determina un risultato – magari anche efficace in termini di rigenerazione – ma…  troppo effimero.

Gli immobili, in qualche modo, aumentano il loro valore commerciale, grazie alla benedizione della “mano pubblica”, ma poi – alla fin fine – vanno a finire sul “mercato”, e si ha ragione di temere che i vincoli di destinazione d’uso possano essere simpaticamente “bypassati”. Nel quartiere Tuscolano, un’esperienza simile è avvenuta con un grande immobile che doveva essere finalizzato a funzioni sociali ed è stato invece “in itinere” destinato ad un ennesimo centro commerciale, qual è Happio

Un dirigente apicale di Cassa Depositi e Prestiti ci ha raccontato (vincolandoci all’anonimato e minacciandoci di querela se avessimo rivelato la sua identità): “in verità, a noi, delle funzioni culturali, non ci interessa nulla, ma proprio nulla, però queste operazioni di vetrina consentono comunque di aumentare la visibilità di immobili di difficile collocamento sul mercato, e quindi incrementano il loro valore allorquando si procederà alla vendita…”.

Abbiamo posto la domanda a Virginia Raggi, e la Sindaca ha risposto che si tratta “comunque di operazioni di rigenerazione, per quanto temporanea”. In questo modo, il potenziale acquirente potrebbe anche pensare di utilizzare gli immobili in una prospettiva culturale. Appunto: “potrebbe” in prospettiva futura. La Sindaca ha rivendicato (in un’ottica del tipo “meglio poco che nulla”) che si tratta comunque di operazioni innovative, che smuovono acque stagnanti da decenni, che mettono in moto energie della società civile. È vero, ma nel lungo periodo?! La mano pubblica stimola interventi privati non certamente animati da vocazione socio-culturale, e sappiamo come alcuni “vincoli” possano essere aggirati (vedi il succitato caso di Happio).

I comitati di quartiere e le associazioni di cittadini dovranno quindi bussare alla porta della dinamica ed effervescente Ninetynine srl: ciò basti, per qualificare un’operazione di partecipazione cittadina alla gestione della “res publica”, in (presunta) ottica di rigenerazione urbana.

Surreale, infine, che, a domanda di un collega giornalista, il Presidente dell’Atac Paolo Simioni non abbia saputo rispondere a chi chiedeva qual è il valore degli immobili approvato nel concordato preventivo (cioè il prezzo minimo sotto il quale non si potrà scendere nella prospettata alienazione): “purtroppo, qui ed ora, non ho la cifra in memoria, non vorrei sbagliare, ma le assicuro che il dato è nel documento, pubblicamente accessibile, depositato in Tribunale”. No comment, ovvero si commenta da solo.

Torneremo presto sulla tematica, che riguarda la gestione della “cosa pubblica” in generale, non soltanto dal punto di vista della funzione della cultura ma anche delle politiche strategiche con cui si governa una metropoli come Roma, così come rispetto alle procedure di trasparenza. Come dire?! Il problema è tecnico e politico al contempo.


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