[Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Francesco Grillo e Andrea Iannone pubblicato su OpenDemocracy]
Cosa dovrebbe fare l’Europa per superare uno dei momenti più bui della sua storia, a ridosso di elezioni parlamentari europee che potrebbero vedere il successo proprio di quelle forze che mettono in discussione l’esistenza dello stesso Parlamento Europeo? Come possono gli intellettuali progressisti salvarsi dalla non pertinenza e riportare alle luce idee in grado di rilanciare dei valori che abbiamo dato per scontati ormai da troppo tempo?
Un’Europa che sembra essere prigioniera di un fantasma. Populisti e sostenitori della sovranità nazionale sono diventati l’incubo dei partiti politici europei tradizionali, che o sono ormai ridotti a brandelli (ad esempio l’SPD in Germania, i socialisti in Francia e il PD in Italia) o non navigano in buone acque, come la tedesca CDU o il Partito Popolare spagnolo.
Ciononostante, il problema di queste istituzioni non sta tanto della mancanza di contenuti o in una superficialità di intenti che li renderebbe inadatti a rappresentare una solida alternativa al liberismo, nonché al modo in cui si è governato sino ad ora, quanto nell’obsolescenza intellettuale che li caratterizza. A tutt’oggi non esiste un’idea concreta, o perlomeno un barlume di strategia formulata da quella che una volta era la classe dirigente europea, da uno dei suoi think tank o dai circoli accademici. Di conseguenza, le intellighenzieoccidentali hanno perso credibilità, e non sono più in grado di comprendere e comunicare la complessità’ del mondo attuale, né tantomeno di offrire soluzioni, o una visione del futuro promettente a cui tutti possano aspirare.
Certo, abbiamo sentito Macron (forse l’unico prodotto di un ancien régime ancora in grado di vincere le elezioni) parlare di rifondazione dell’Europa. E certo, l’opinione attualmente più’ diffusa è che l’Europa potrà stare al passo con i tempi solamente se metterà in atto una radicale trasformazione della propria natura e delle proprie istituzioni.
Ma da dove dovrebbero cominciare queste riforme?
Si deve partire dal presupposto che l’Europa sta morendo a causa di una retorica vecchia di un secolo che andrebbe urgentemente attualizzata. Da troppo tempo le istituzioni europee sono oppresse da aspettative spropositate su numerosi fronti, senza avere le risorse, l’autorità o le competenze tecniche necessarie per soddisfarle. Dai migranti alla disoccupazione, dalla crescita economica alla lotta contro la povertà: a volerle contare tutte, sono ventotto le iniziative della Commissione europea (non a caso lo stesso numero degli Stati membri dell’Unione Europea, poiché ognuno di essi, a prescindere dalle dimensioni, ha un Commissario responsabile per ciascuna competenza).
Altrettanto significativo è il fatto che queste competenze siano,in modo più o meno esplicito, condivise tra gli Stati membri. In altri termini, questa modalità di condivisione è purtroppo il prodotto di una integrazione parziale con cui i politici nazionali e il loro elettorato giustificano dei fallimenti che sono diventati la normainvece che l’eccezione. I tecnocrati europei possono quindi continuare ad affermare che le loro possibilità sono minate dal bisogno di garantire deboli compromessi.
Un’Unione Europea in grado di perseguire i proprio obiettivi dovrà necessariamente fondarsi meno sulla retorica e più sulla risoluzione dei problemi. Ad esempio, se gli Stati membri si accordano sulla libera circolazione delle persone in una determinata zona, come Schengen, dovranno anche condividerne i confini, le normative sull’asilo e i visti ai migranti economici, nonché le infrastrutture e le forze di polizia per gestire le richieste. In caso contrario, continueremo a essere in balia di asimmetrie e parassitismi.
Lo stesso vale per tutte le altre politiche, dal libero mercato alla regolamentazione della concorrenza, che attualmente vengono condivise tra i vari Stati membri solo in modo parziale e ambiguo. Questo disallineamento rischia di seminare sospetto e dissapori. La stessa unione monetaria è l’esempio più discutibile e pericoloso di tale ambiguità. Le famose condizioni del “patto di stabilità e crescita” sono rispettate soltanto da 6 dei 19 Stati che hanno adottato l’euro.
La parola ai cittadini
In ogni modo, per raggiungere una completa integrazione servono maggiori legittimità e flessibilità. I singoli Stati, prima di trasferire i propri poteri alle istituzioni internazionali, devono interpellare i cittadini. Allo stesso modo bisogna stabilire in modo chiaro ed esplicito i meccanismi di uscita.
La rigidità dell’integrazione europea è alla base della tragedia Brexit e dell’incognita dell’euro. Il problema dell’Europa (e in particolare dell’euro) è quello di essere come uno di quei matrimoni cattolici dove non esiste una clausola di divorzio, e che finiscono per trasformarsi in una prigione di reciproca ipocrisia, sfociando poi in tradimento, se non addirittura in violenza.
L’Europa del futuro dovrà essere in grado di riconoscere in modo flessibile e trasparente le aree in cui i singoli Stati potranno decidere di rinunciare al proprio potere.
Dal canto suo, l’élite europea invece di preoccuparsi eccessivamente della forza dei movimenti politici che si avvalgono unicamente della debolezza delle istituzioni, dovrebbe riflettere sulla propria incapacità di partorire una qualsiasi idea concreta, se non una strategia per cambiare l’Europa e salvarla dall’obsolescenza.
Il potenziamento degli scambi culturali come l’Erasmus, la regolamentazione delle piattaforme digitali, l’attenzione al cambiamento climatico, il passaggio dai combustibili fossili a quelli sostenibili, assieme agli esperimenti con nuove forme di democrazia (a partire dal voto elettronico): ecco alcuni degli argomenti interessanti che potrebbero essere usati la ripresa del progetto europeo. E comunque, il metodo scelto per la ripresa dovrà essere l’antitesi di quella retorica non trasparente e antidemocratica che ha portato l’Europa alla paralisi attuale.