“Click… click… click”. Per più di 400 volte la funzionaria di polizia fa scattare il contapersone: l’aula bunker è colma come non mai. L’altare prefabbricato di massima sicurezza, costruito appositamente nel piazzale del Tribunale di Reggio Emilia celebra l’ultimo, solenne atto del maxiprocesso Æmilia, il primo che si trova a dibattere sulla presenza della ‘ndrangheta in Emilia. Quel suono analogico è la fine dei controlli di sicurezza. Dopo 195 udienze, il rito ordinario è pronto alla fine del dibattimento. È il giorno della sentenza. Dirà che c’è una “Mafia Capitale all’emiliana”. Associazione mafiosa. Condannati per 416Bis colletti bianchi e boss del clan Grande Aracrì di Cutro. Nel cuore della fu ‘Emilia Rossa’ ha prosperato e prospera la ‘ndrangheta.
È di 125 condanne, 19 assoluzioni e quattro prescrizioni il verdetto della Corte presieduta da Francesco Maria Caruso (a latere Cristina Beretti e Andrea Rat).
C’è un “prima” e c’è un “dopo”. C’è un momento esatto: le 15:06 e una data, il 31 ottobre 2018. Il presidente della corte termina in quel momento la lettura del dispositivo della sentenza – le motivazioni arriveranno a gennaio ’19. Lettura iniziata in un religioso silenzio ed è resa faticosa, una prima volta, dagli sproloqui di Vincenzo Iaquinta che urla ai giudici di “vergognarsi” e si prenderà, così, i tigì della sera offuscando il cuore del maxiprocesso. Ma in quel preciso momento, quando Caruso finisce la lettura, cadono i condizionali: l’associazione mafiosa in Emilia esiste. Da quel momento, il territorio celebrato da Guareschi e dalla saga di Peppone e Don Camillo si trova costretto a dover – civilmente – processare se stesso.
Di prima mattina, nel piazzale di via Tiperlini, a mettersi in fila indiscriminatamente, uno accanto all’altra, sono tutti i protagonisti di . Æmilia. Sono studenti che hanno assistito a decine di udienze, volontari delle associazioni, decine di sindaci con il tricolore, imputati – che di lì a sera saranno privati della libertà e tradotti in carcere – e loro parenti. Avvocati con la toga piegata in borsa, una trentina di giornalisti e cameraman, il presidente Fnsi Giuseppe Giulietti e Giorgio Maria Leone, vicepresidente dell’Associazione Stampa Emilia-Romagna. Tutti in direzione dei metaldetector. Appena oltre, dalle ore 12:56, sarà scritta una triste pagina di storia d’Italia.
Tra un applauso di troppo e una sfuriata da cartellino rosso di un ex campione.
La ‘ndrangheta non esce sconfitta dalla sentenza del maxiprocesso Æmilia. E’ stata, semmai, “fotografata” compiutamente per la prima volta da queste parti. Se a livello giudiziario l’immagine è chiara grazie al lavoro della Dda e dai pm Beatrice Ronchi e Marco Mescolini, per la maggior parte degli italiani ne esce un’istantanea che dev’essere ancora messa completamente a fuoco. Soprattutto in Emilia-Romagna, l’immagine è sfocata. “I processi e le condanne non interrompono eventi criminosi di questo tipo – ha ‘ammonito’ il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, dopo la sentenza -. Faremo nuove indagini a partire dalle parole dei pentiti che hanno aperto altri filoni d’inchiesta”.
Interrogarsi da subito sul concetto che contraddistingue l’associazione mafiosa: l’omertà. Questo dovrebbe fare l’Emilia. Alla fine saranno quasi 50, infatti, i testimoni chiamati al processo per cui la corte ha, in concomitanza con la sentenza di primo grado, rinviato gli atti alla Procura per falsa o reticente testimonianza. Anche da qui la Procura della Repubblica prenderà spunto per indagini e approfondimenti.
I riflessi sociali e politici di questo processo preoccupano la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, che ha sottolineato come ad essere “spaventose” sono “le intercettazioni in cui si parla emiliano e calabrese”. Eppure, su oltre 1.220 anni di carcere, nonostante l’associazione mafiosa in Emilia, “la” notizia è stata la sfuriata fuori campo di Vincenzo Iaquinta.
Come ha scritto Piergiorgio Paterlini sull’edizione bolognese di “Repubblica”, la notizia non è Iaquinta. La notizia è l’Emilia. La sfilza di nomi, gli anni di carcere, il contesto sociale del processo.
Æmilia ha punito i “colletti bianchi”: concorso esterno per imprenditori, prestanome, industriali che si rivolsero ai clan per il “recupero crediti” – attività tra le più remunerative, in Emilia, per gli ‘ndranghetisti di Cutro. Per molti imprenditori è caduta l’aggravante mafiosa. Secondo i pentiti, facevano sì “la fila per fare affari” con i clan, come ricostruito nel processo. Quindi per lo stesso motivo con cui la corte ha definito un risarcimento di 25mila euro per Ordine dei giornalisti, Associazione stampa e sindacati certificando che “la presenza delle mafie è motivo di indebolimento dei diritti dei lavoratori”, la parte sana delle imprese locali è stata indebolita da questo ventre molle dell’economia emilianoromagnola.
Non colpiscono, in questo senso, le dichiarazioni dell’ex Prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro, fautrice delle prime e fondamentali interdittive antimafia (tra le quali, il ritiro del porto d’armi del padre di Giuseppe Iaquinta, nel 2012). “E’ una sentenza storica, prova che le infiltrazioni ci sono”. I primi campanelli d’allerta che qualcosa stava andando nel verso sbagliato da queste parti li aveva lanciati, istituzionalmente, la De Miro.