Cos’hanno a che fare quel signore nero, elegante, tempie sbiancate, pronto a replicare con agile sarcasmo alle grevi menzogne dell’avversario che l’insulta in una congestione di derisione e minacce: cosa possono condividere l’ex Presidente Barack Obama, tornato volontario in prima linea nell’infuocata campagna elettorale di mid-term, e il Presidente Donald Trump, che tra un rally di wrestling e l’altro definisce se stesso magico e non gli dispiace che lo chiamino messianico? Le maggioranze contrapposte espresse dalle urne nei due rami del Congresso ne sono la dualistica e irriducibile incarnazione istituzionale.
Quest’opposizione riflette e sintetizza la lotta politica tra le due Americhe e il risultato ne certifica la reciproca estraneità tanto quanto la contiguità (nella notte dello scrutinio un canale TV mandava in onda brani dello storico incontro di boxe vinto da Ray Sugar Robinson contro l’indomito Jack La Motta, toro scatenato…). Stacey Abrams, che ad Atlanta abbiamo visto sperare fino all’alba di diventare la prima donna governatrice di uno stato conservatore come la Georgia, fino allo spoglio dell’ultimo voto, conclude senza arrendersi con un sorriso sfinito sul grande e bellissimo volto nero: ”Continueremo a parlare a tutti, porta a porta…”.
La conquista democratica della camera dei deputati, che significa il controllo dell’attività legislativa, è un risultato decisivo. Tuttavia aveva ragione il New York Times a suggerire fino all’ultimo momento cautela verso l’ottimismo dei sondaggi. I repubblicani hanno vinto tutte le sfide a rischio ballottaggio e rafforzato la maggioranza al Senato. La pervicace ed esagitata demagogia populista di Trump è stata probabilmente risolutiva in più di una situazione. Anche se appare necessario scavare più a fondo per trovare le radici del fanatismo su cui riesce ad attecchire a dispetto della realtà dei fatti.
Un esempio significativo a Tallahassee, lungo una faglia della frattura che divide gli Stati Uniti non tanto tra popolo ed élites quanto trasversalmente tra forti squilibri culturali e socio-economici, frutto di storie diverse. Qui il democratico afro-americano Andrew Gillum ha perduto per un soffio contro Ron Desantis, più volte soccorso personalmente da Trump nelle settimane immediatamente precedenti il voto. Ebbene anche il New Deal roosveltiano vi aveva trovato vita particolarmente difficile. E ancor prima -158 anni fa- la capitale della Florida, da sempre centro degli interessi agricoli regionali, ospitò gli stati secessionisti per deliberare sulla guerra di Secessione.
Non a caso Trump ha scelto la Florida per lanciare la sua fantasiosa crociata contro le poche migliaia di appiedati migranti centramericani, appena apparsi sul territorio messicano e ancora distanti 3mila chilometri dalla frontiera meridionale degli Stati Uniti. Ma lui li ha chiamati “orde d’invasori” e ha ordinato di mandare ad attenderli 15 mila soldati in assetto di combattimento. Un’ altra “magia” della sua campagna elettorale, un altro illusionismo del suo piffero che hanno potuto attrarre pregiudizi e paure di tanti votanti per condurli fino alle urne e votare per il traballante candidato repubblicano.
L’onda lunga della deindustrializzazione avviata da Ronald Reagan a fine anni Settanta del secolo scorso, l’integrazione dei mercati su scala mondiale, l’introduzione crescente e tumultuosa delle nuove tecnologie sono momenti successivi di un processo unico e senza precedenti. Un vero e proprio sconvolgimento dell’universo culturale degli americani, delle loro sicurezze e aspettative. Così come della scala di valori, della qualità della vita interiore dell’intero Occidente. Non solo una sostituzione epocale dei sistemi produttivi, che ne costituiscono nondimeno l’evidente, invasiva materialità essenziale e quotidiana. E’ negli interstizi delle sue contraddizioni sociali e morali che riesce a penetrare il tossico illusionismo di Trump.