“Lo Yemen è il peggior Paese in cui si possa vivere, e questo vale soprattutto per le donne. Ma le donne non sono solo vittime passive, sono attive nelle comunità locali, negoziano con i gruppi armati per i loro figli e per aprire le scuole, e chiedono di essere coinvolte nei negoziati per la pace”. Yasmine Al Nadheri è una delle poche a portare il velo allo Women’s Forum dedicato alla donne della regione mediterranea, uno dei pre-incontri dei Med Dialogues organizzati anche quest’anno a Roma dal Ministero degli Affari esteri e dall’ISPI, e al quale ha partecipato anche Corrente Rosa, associazione per la partecipazione delle donne nella politica e nei luoghi decisionali. Ma Yasmine è una donna giovane e dinamica, racconta della sua fuga dallo Yemen con la figlia per cercare sicurezza e pace “in esilio” ad Amman, e della sua Peace Track Initiative per la pace nel suo Paese e nella regione: iniziativa volta a potenziore la voce delle donne, dei giovani e delle organizzazioni della società civile nei processi negoziali e di peace.building
Dopo l’avvio dei colloqui di pace tra le parti – subito abortiti a settembre a Ginevra ma che dovrebbero ripartire a dicembre in Svezia, – “noi donne chiediamo all’Onu di essere coinvolte nei negoziati”, racconta Yasmine. Ma lamenta il fatto che si sia già allontanata dal tavolo la principessa saudita Lamia Bint Majed Al Saud, segretaria generale della fondazione filantropica Al Waleed, di cui aveva appena illustrato l’operato non solo nel Regno ma anche fra le donne rifugiate e in Afghanistan.
“Non abbiamo alcuna comunicazione con le donne saudite – dice l’attivista yemenita – eppure per noi sarebbe importante recare questo messaggio ai decisori politici”. E fra i decisori vi è proprio la monarchia saudita, a capo di una coalizione militare araba che dal 2015 ad oggi ha inutilmente tentato di sconfiggere i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, che si sono presi il controllo di vaste aree dello Yemen: una guerra lunga e sanguinosa, che ha ridotto alla fame milioni di civili e provocatomigliaia di vittime per i bombardamenti, ma anche per fame e malattie (85 mila i bambini sotto i cinque anni, secondo le ultime stime di Save The ChildrenNella ricerca e nella costruzione della pace, oltre che nella prevenzione dei conflitti, le capacità di mediazione delle donne sono fondamentali: ne sono convinte tutte le partecipanti al Forum, ma lo sostiene anche la risoluzione 1325 delle Nazioni Unite di 18 anni fa sul tema “Donne, pace e sicurezza”, che per la prima volta ha riconosciuto il ruolo fondamentale che le donne vi possono giocare e come subiscono in modo sproporzionato l’impatto dei conflitti armati. Tuttavia, tra il 1990 e il 2017, le donne costituiscono solo il 2% dei mediatori per decine di conflitti, l’8 % dei negoziatori e il 5% dei firmatari di importanti accordi di pace. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha sottolineato nel suo ultimo rapporto la necessità di superare gli ostacoli alla loro partecipazione ai processi di risoluzione dei conflitti. E sulla stessa linea l’Italia ha lanciato nel 2017 il Mediterranean WomenMediators Network, una rete sul cui lavoro finora si è fatto il punto proprio nel forum di Roma. Presenti fra gli altri, per conto della Farnesina, la segretaria generale Elisabetta Belloni e Francesca Tardioli, vice direttrice generale per gli Affari politici.
Ma che la strada sia in salita lo dimostra anche il caso della Siria, di cui ha parlato Rajaa Altalli, cofondatrice del Centro per la società civili e la democrazia in Siria. Il Comitato costituzionale, per la formazione del quale l’inviato Onu Staffan De Mistura sta compiendo proprio in questi giorni i suoi ultimi sforzi prima di cedere l’incarico al suo successore, “deve vedere una partecipazione delle donne almeno per il 30%”, ha detto l’attivista, che manca dal 2010 dalla Siria ed il cui padre, cristiano, è stato per nove anni un detenuto politiche nelle carceri di Assad. Il Comitato, parte dlla road mapdefinita dal Consiglio di sicurezza già nel 2015, deve essere composto da una quota nominata dal governo di Damasco, una quota definita dalle opposizioni e una terza parte in rappresentanza della società civile. All’interno della quale, ha sottolineato l’attivista, “le donne sono essenziali per la transizione politica”. Ma proprio al Med Forum, che si chiude domani, De Mistura ha assicurato che sarà sua cura garantire che la quota del 30% venga raggiunta nel Comitato.
Essenziale la partecipazione delle donne anche nel processo politico in Libia, ha sottolineato da parte sua Rida Al Tubuli dell’associazione Maan Nabneeha(Together We Build It). Eppure si è dovuto lottare anche solo per mandare tre donne nella delegazione ufficiale della recente Conferenza di Palermo sulla Libia, ha sottolineato, e renderne nota all’opinione pubblica la presenza. Del resto la strada è lastricata di ostacoli in tutta la regione del Sud del Mediterraneo, dalla resistenze culturali che persistono anche nelle società più aperte alle vere e proprie minacce e violenze che possono colpire le donne impegnate in politica e nella società. Lo ha ricordato la tunisina OuidedBouchamaoui, unica donna del Quartetto per il dialogo nazionale in Tunisia che ha vinto nel 2015 il Nobel per la pace, costretta a vivere sotto scorta – ha detto – dal 2013 fino a quest’anno. “Non ci sono soluzioni di pace senza la società civile e senza le donne – ha sottolineato – e noi in Tunisia le abbiamo volute cercare al nostro interno, senza interventi dall’estero”.
A rompere l’incanto sulle donne come portatrici e garanti della pace è stata però Amal Jadou, del ministero degli Esteri palestinese. “Non è vero che tutte le donne vogliono la pace, lo dimostrano le soldatesse israeliane”, ha affermato, avvertendo che “rischiamo di vedere scoppiare di nuovo un conflitto” israelo-palestinese.
Al tavolo del Forum, in cui una prima sessione è stata dedicata all’‘empowerment delle donne’ come strumento di crescita economica dell’intera società, molte altre voci anche da Egitto, Algeria, Libano e Cipro, Italia e Unione europea.