Un grande silenzio avvolge il processo sulla Trattativa Stato-mafia e il suo verdetto: colpevoli! Come se, dopo una sentenza di condanna pronunciata il 20 aprile scorso e 5252 pagine di motivazioni depositate dai giudici il 19 luglio, si fosse passati ad altro, archiviando la cosa in quanto evento di scarsa importanza. O uno di quelli cruciali, ma troppo scomodi e indigesti.
Forse a mettere in imbarazzo è l’evidenza di un fatto quasi incredibile: è accaduto che lo Stato ha processato se stesso e ha vinto. Nel senso che è riuscito a farlo, nonostante fosse ritenuto poco probabile da molti – compresa la gran parte dei media – che tutto ciò sarebbe potuto avvenire per davvero. Nonostante ostacoli e pressioni fortissime ricevute nel corso dei cinque anni di durata del dibattimento, indisponibilità e censure perfino da parte delle più alte cariche dello Stato, compreso l’ex presidente Giorgio Napolitano. Nonostante la distorsione informativa messa in atto da buona parte dei giornali, legati ai grandi gruppi editoriali. Nonostante fosse coinvolta una delle personalità più in vista del Paese, Silvio Berlusconi, prima come imprenditore, quindi a partire dal 1994 come premier, più volte rinominato, con il suo braccio destro Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia.
Contrariamente a ogni previsione di sventura, la giustizia ha seguito il suo corso, i giudici hanno riconosciuto l’accusa fondata, il manipolo di magistrati capitanati dal pm Nino Di Matteo ha dimostrato che il reato di “violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario” dello Stato non solo era ragionevole, ma pienamente attuato. Per il resto, in verità, nessuno “ha vinto” a fronte di così tanti morti e oltre un quarto di secolo trascorso in attesa di risposte da parte dei familiari delle vittime e del Paese, o almeno di quella parte di esso non troppo distratta o dimentica (benché sempre più esigua) che ha chiesto a gran voce verità e giustizia.
Cominciamo dalla fine, proprio come accade in molte delle avventure umane più importanti, cioè dalla requisitoria conclusiva del processo, al termine di una vicenda terribile e complessa che – per una volta – ha avuto una degna fine. Ciò che si doveva dimostrare è stato dimostrato, ciò che si doveva chiamare col suo nome è stato nominato. Chi era da condannare è stato condannato, sulla base di giuste prove – così hanno ritenuto giudici e giuria.
Le cose sono andate a posto, dunque, i pezzi del puzzle che ha chiamato in causa tre Capi di Stato (Scalfaro, Ciampi e Napolitano), politici (Berlusconi, Mannino, Mancino), imprenditori, servizi segreti (più o meno deviati), forze armate (Mori, Subranni, De Donno), criminali di vario genere e natura (Riina, Provenzano, i fratelli Graviano), giornalisti e magistrati, si sono ricomposti fino a formare un disegno leggibile. Quello che delinea un racconto tra i più oscuri e inquietanti del Paese: il combattimento ad armi impari tra il dover essere secondo giustizia e coscienza e le necessità di Stato, tra l’aderenza al proprio ruolo istituzionale e la volontà di distaccarsene, tra la brama di potere e il desiderio di onnipotenza, tra paura e impotenza, tra chi uccide e chi obbedisce. Tra chi asseconda il procedere degli eventi e chi no, vi si oppone e ne paga le conseguenze. Assassini, traditori, martiri, eroi. Davvero non ci fu scelta?
Alti si alzeranno, a questo punto, i lamenti di quanti negano la realtà dei fatti e di chi non riconosce che la verità processuale possa essere utile alle ricostruzioni obiettive. Di certo le due verità – quella processuale e quella storica – non sono la medesima cosa, non sono sovrapponibili; tuttavia entrambi gli aspetti, oltre a chiarirsi meglio l’un l’altro se accostati, concorrono insieme a illuminare un quadro particolarmente fosco, con attori mendaci e ammalati di “omertà istituzionale”, come l’ha definita Di Matteo.
“Questo processo si è portato dietro, ed è destinato a portarsi dietro, una scia infinita di veleni e polemiche. Già nella fase delle indagini ho iniziato a capire il costo che avrei pagato. Non mi sbagliavo”. Sono le battute finali della sua requisitoria nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. “Nessuno ha reagito. Nessuno ci ha difesi. Lo avevamo messo nel conto, perché così accade in quei casi, poco frequenti, in cui l’accertamento giudiziario non si limita a ricostruzioni minimalistiche di aspetti criminali ordinari, ma si rivolge all’individuazione di profili più alti e di causali più complesse. Quelle che corrono parallele non al singolo fatto criminoso ma a una vera a propria strategia…”.
Ma di quale strategia parla questo pm, che ha passato 25 anni con la toga addosso (e con numerose limitazioni di vita, dovute alle misure di protezione), è stato procuratore della Repubblica a Caltanissetta, quindi a Palermo, e adesso – a seguito di regolare concorso – è sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo? Ha indagato sulle stragi dei magistrati Chinnici, Falcone e Borsellino e delle loro scorte ed è ora autore di un recentissimo libro con il giornalista Saverio Lodato, esperto come pochi altri in Italia di mafia e antimafia.
“Il patto sporco” è edito da Chiarelettere, (pagg, 207, euro 16) e chiarisce i legami criminali tra politica e Cosa Nostra, allo scopo di assicurare a ognuno dei partecipanti una fetta di potere, una fetta di territorio italiano, una fetta di voti. Si aveva salva la vita, protezione, carriere e onori in cambio di regimi carcerari meno duri, revisione degli ergastoli comminati nell’altro grande processo del secolo scorso, il Maxiprocesso (1986-1992), di un no alla confisca dei beni sequestrati ai mafiosi, della revisione del reato di associazione di stampo mafioso, della riforma della legge sui pentiti. Queste tra le principali richieste avanzate nel controverso “papello” (ossia elenco) presentato dal capo dei capi, Salvatore Riina.
Lo Stato era in ginocchio e alcuni suoi rappresentanti consenzienti: fu giusto, e addirittura onorevole, trattare come hanno affermato alcuni? No rispondono i giudici, non fu giusto affatto, perché quella trattativa, nata in seguito dell’assassinio di Salvo Lima, parlamentare della corrente dc di Giulio Andreotti, per arginare il dilagare aggressivo del fenomeno mafioso, non procurò altro che vittime e indebolì lo Stato e i suoi apparati chiave a spese di tutti, dell’Italia e degli italiani.
La celebre frase di Riina spiega tutto: “Dobbiamo scatenare la guerra per poi fare la pace”. Occorreva uccidere per poi trattare, spazzare via chi aveva tradito i legami consolidati tra politici e mafiosi con le condanne del maxiprocesso e la nomina di Falcone a direttore degli affari penali. Non si poteva più contare sull’asse “Palermo-Roma – chiarisce Di Matteo – Salvo Lima e Ignazio Salvo, Giulio Andreotti e Corrado Carnevale (il giudice ammazzasentenze a favore dei criminali ndr)”. Un equilibrio si era rotto e per ricrearne uno nuovo bisognava attaccare, uccidere, praticare il “muro contro muro” e solo dopo trattare di nuovo.
Piegarsi al ricatto mafioso significò consegnarsi nelle mani di criminali che minacciarono le istituzioni e i suoi rappresentanti con bombe e stragi. Ma non solo, anche di persone in divisa che la tradirono, di politici senza scrupoli in cerca di consenso elettorale, disposti ad utilizzare i malavitosi (lo stalliere Mangano assunto da Berlusconi) come terminali del proprio impegno politico. Vennero sacrificate vite innocenti, si diffuse un clima di paura, furono assaliti monumenti storici e della Chiesa, nelle principali città italiane. Insomma si procedette a una destabilizzazione dello Stato, mettendo in grave pericolo le istituzioni democratiche. “Per lunghi tratti di strada Stato e mafia hanno camminato di pari passo”, afferma a questo proposito Di Matteo.
“Fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio – precisa il pm – due ufficiali del Ros, il colonnello Mori e il capitano De Donno, con il consenso del loro comandante Subranni, incontrano Vito Ciancimino (ex sindaco di Palermo notoriamente legato a filo doppio con la mafia ndr) nella sua casa romana. Per organizzare il primo di tanti successivi appuntamenti, almeno cinque, sino al dicembre 1992, si rivolgono a suo figlio Massimo Ciancimino. I contenuti di tutti quei dialoghi assumono la valenza di una vera e propria trattativa. E da Vito Ciancimino vengono puntualmente riferiti a Totò Riina e Bernardo Provenzano. Mentre i carabinieri omettono di lasciare traccia scritta di quei colloqui, omettono di riferirne ai vertici dell’Arma e alla magistratura, cercano invece sponde politiche, informando autorità istituzionali e parlamentari”. Di cosa? Delle richieste politiche dei mafiosi, per interrompere la strategia di attacco frontale allo Stato. “Si sono fatti sotto” ebbe a dire Riina, “gli ho fatto un papello di richieste grande così”.
Questi i motivi dell’orientamento prevalentemente stragista dell’ala dura dei corleonesi. Quando poi, a causa della cattura di Riina (nel ‘93), il potere passò al suo alter egoBernardo Provenzano e ai fratelli Graviano, si affermò l’ala meno oltranzista di Cosa Nostra, che oggi vede in Matteo Messina Demaro, latitante da 25 anni, il suo erede e principale referente. Basta eccidi, coppole e tritolo come nel ’92 – con le stragi di Capaci e via D’Amelio che costarono la vita a Falcone e Borsellino – e nel ’93 – con gli attentati di Milano Firenze e Roma. Dopo Mani Pulite che mandò a casa gli esponenti dei vecchi partiti e il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica macchiato dal sangue delle stragi, la mafia indosserà il vestito grigio, preferendo infiltrarsi nell’economia, nella finanza, nei gangli politici più sensibili del Paese per acquisire una forza sempre più invisibile e pervasiva.
Sebbene per Di Matteo, che ha profuso il suo impegno nel processo sino alla fine, i 200 chili di esplosivo provenienti dalla Calabria erano comunque “già pronti” come ai vecchi tempi, per fargli fare la “fine del tonno”. Così commentò Riina nel 2013, intercettato nel carcere di Opera, mentre parlava con Alberto Lorusso della Sacra Corona Unita, durante l’ora d’aria. Era successo lo stesso per Falcone.
Dure le parole di Di Matteo e senza sconti. Il confronto con quanto è narrato in prima persona è difficile da sostenere. Forse è anche questa una delle ragioni per cui si preferisce non guardare a questo capitolo tragico della storia italiana, nel timore di restare impietriti fissando dritto negli occhi la Gorgone.