Sandro Ruotolo, Nello Trocchia e Salvatore Minieri, tre giornalisti campani, minacciati dalla criminalità organizzata, rispondono per più di un’ora alle domande incalzanti del premier. Improvvisa e spiazzante la scelta di Giuseppe Conte di chiudere la sua lunga giornata – iniziata con un minitour antimafia in Calabria (dove ha incontrato il cronista sotto scorta Michele Albanese) e proseguita in pellegrinaggio in varie zone simboliche di Napoli – con un incontro, mai visto prima in Italia. Palazzo Reale la location dell’appuntamento, in certi momenti surreale, dove il Presidente del Consiglio arriva direttamente da una visita a Forcella. Quattro sedie di plastica, due microfoni, il professore rompe subito il ghiaccio: “Abbiamo fatto un brindisi alla libertà di informare e anche al diritto ad essere informati”, ha spiegato, parlando alla numerosa platea e introducendo una sorta di intervista ai tre cronisti, “un’occasione per me molto stimolante dopo aver dovuto imparare in fretta il mestiere di intervistato quando ho iniziato l’attività di governo”. Conte ha spiegato che “quella di stasera rappresenta anche un modo per riflettere sulle loro personali esperienze. Sono qui con molta umiltà per apprendere, il mio ruolo di responsabile dell’autorità di governo mi impone di acquisire sempre più informazioni e oggi è stata una giornata dedicata al contrasto alla criminalità e all’illegalità”.
“C’è una precisa volontà – ha assicurato Conte – che i riflettori siano sempre accesi su chi rischia, su chi mette a rischio la propria libertà personale e la propria vita per un bene pubblico, per offrire nell’ambito delle proprie competenze e capacità la possibilità di essere informati anche su vicende su cui altrimenti sarebbe facile far cadere un nuvolo di omertà”
Quanto alle polemiche degli ultimi tempi, “ci sta che dopo tanti attacchi ci possa essere una reazione – ha detto Conte – ma non dovete temere che si metta in discussione un principio fondamentale dell’ordinamento civile come quello della libertà di stampa”. “C’è la libertà di informare e c’è il polo simmetrico, il diritto a essere informati. E’ – ha aggiunto – un diritto che comporta anche doveri, responsabilità”.
Si inizia con Ruotolo. Il primo ministro/intervistatore parte da una vicenda personale, la morte innocente di sua cugina Silvia Ruotolo nel 1997. “In quel momento – spiega il cronista – decisi di non occuparmi più di Napoli, ero molto arrabbiato per l’indifferenza di una certa borghesia di fronte a simili tragedie, poi sono ritornato a raccontarla. Dal 97 la città è cambiata, anche se la guerra civile è ancora in atto. Solo a fine settembre una donna è stata ferita in un conflitto a Forcella, semplicemente perché era affacciata al balcone”. “Mi da’ fastidio essere raccontato come giornalista con la schiena dritta – risponde così Ruotolo alla definizione, più volte usata da Conte – mi racconterei come un cronista o giornalista-giornalista, così come descriveva questa professione Giancarlo Siani. Se abbiamo la schiena dritta è perché altri giornalisti non la hanno” (Applausi!). Poi incalza: “Noi, caro presidente, abbiamo bisogno della figura del giornalista, non può essere delegittimato il suo ruolo, in una democrazia non ci può essere un rapporto diretto tra il potere e i cittadini. Dal Duemila ad oggi abbiamo più di tremila colleghi minacciati”. Ruotolo, tra i tanti cronisti che subiscono quotidiane intimidazioni, racconta la storia del giovane Stefano Andreone, mandato in ospedale da tre persone, perché da Cardito (in provincia di Napoli), in una delle sue videoinchieste, aveva denunciato presunte mazzette sulle esumazioni del locale cimitero e poi racconta della bella realtà di Fan Page (in prima fila c’è il direttore Francesco Piccinini).
“Voi siete il governo del cambiamento – dice ancora il reporter napoletano – ma vi state comportando come gli altri, fate una legge sul conflitto di interessi e, poi, non si può pensare di fare una lista dei giornalisti buoni e dei giornalisti cattivi”, con riferimento al post dell’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista. “L’elenco dei giornalisti buoni e cattivi? L’hanno fatto dal Guatemala, mica l’ha fatto un membro del governo”.
Conte ci tiene ad introdurre i suoi ospiti, raccontandoli biograficamente. Certo alcuni preamboli sono infelici. Quando passa la parola a Trocchia, lo presenta con una strana ironia…. “Sembrerebbe che certe minacce le abbia cercate a destra e a manca, che non riesca a svolgere il suo lavoro senza trovarsi in certe situazioni”.
“Epiteti come meretrici e pennivendoli – dice Nello Trocchia – non ci fanno bene, la delegittimazione non aiuta la nostra professione. L’idea che il giornalismo vada attaccato continuamente e che si possa creare una sorta di comunicazione diretta tra popolo e politica, disarticolando il ruolo dell’informazione, è sbagliata. Lo dico, non in una logica di polemica, perché lei ha fatto questa sera un gesto importantissimo nell’ascoltarci. E’ importante che sia rivisto l’equo compenso, sia fatta una legge sulle querele temerarie, che diventano una mordacchia per i giornalisti, un macigno perv la libertà di stampa. Fondamentale anche la scorta mediatica, portata avanti da associazioni come Articolo21. Quando fui minacciato mi aiutarono in questo senso diversi amici, come Giuseppe Giulietti o Giovanni Tizian”. Conte, continua a fare domande, con una diplomatica assenza davanti alle provocazioni…
“Molti cronisti – ha spiegato ancora Trocchia – lavorano in territori complicati, il nostro paese è attraversato da consorterie criminali e mafie autoctone, che devono essere la vera centralità di azione contro cui battersi. Deve finalmente finire la pacchia di questa criminalità locale, che ha devastato varie arie della nostra regione, la loro presenza rende difficile fare il nostro mestiere in certi luoghi. Come a Foggia dove ci sono tre mafie, molto ignorate, con un morto ogni sette giorni, io chiesi di fare un servizio su questa realtà, che fu battezzata da Raffaele Cutolo negli anni 70. Scoprii che c’erano mamme che perdevano i figli per la lupara bianca o negozi che venivano fatti saltare in area in pieno centro storico. Raccontai l’ennesimo omicidio della mafia garganica e fui aggredito a calci e pugni dal fratello della vittima. C’è l’esigenza di illuminare ‘a giorno’ territori completamente spenti. L’unica telecamere in quel caso era la nostra. Un altro esempio è la ‘Romanina’ a dieci chilometri dai palazzi del potere. Dove per anni hanno imperversato i Casamonica e lo hanno fatto silenziando ogni forma di presenza democratica. Quando andai lì c’era l’arresto di Antonio Casamonica, che si era macchiato di un’aggressione al Roxy Bar ai danni di una disabile, in quel caso fu aggredita anche la mia troupe. Noi non siamo eroi, attribuire la patente di eroismo a qualcuno significa delegare a quel soggetto la lotta alla mafia e deresponsabilizzare gli altri”.
Abbastanza singolare anche l’introduzione a Minieri. “Sembra che le minacce la fortificano, le diano adrenalina…”.
“Le minacce non mi fortificano – risponde il giornalista casertano – non mi fanno bene. Ho fatto il percorso inverso, stavo andando via dal mio territorio ed è stato un articolo di Sandro Ruotolo, il mio maestro, a farmi rimanere. Mi ritengo fortunato perché continuo a vivere una mafia provinciale, a Pignataro Maggiore. Una cittadina di seimila abitanti, fianco a fianco alle persone che hanno dato l’ordine di uccidere Giancarlo Siani o a chi è stato il mandante dell’uccisione di Franco Imposimato, fratello del giudice Imposimato. Qualcuno potrebbe dire perché non si è andato via? Proprio perché venivo da lì. La camorra è la prima luce che mi ha dato il via per fare il giornalista. Noi viviamo a 400 metri da quelli che abbiamo fatto arrestare. Noi siamo figli di una terra diversa, abbiamo gli anticorpi, credo di avere come un sistema immunitario completamente differente dal resto di Italia. Gli attori dei nostri articoli li incontriamo in un bar di mattina e il giorno prima davanti ai giudici”. Alla sollecitazione di raccontare la sua scoperta della più grande discarica venuta alla luce a Calvi Risorta, in provincia di Caserta, Mineri inizia a raccontare una storia fatta di incredibile “cecità”.
“Sì – dice – lo sapevano tutti che lì c’era una discarica. Dalle nostre parti hanno una disattenzione un po’ strutturale, alcuni politici, anche qualche collega, fa parte del corredo genetico di qualcuno. La discarica era lì dal 1976, quando per la prima volta si registra un’intossicazione collettiva di persone che stavano lavorando in un terreno adiacente a questa grande azienda. Dodici persone vengono portate in ospedale, perché c’erano dei fumi rosa che venivano fuori da questo terreno e enorme. Grande venti volte lo stadio San Paolo, nessuno si era accorto di niente. Nel 2014 compriamo un drone e facciamo il confronto tra le vecchie fotografie e notiamo che improvvisamente erano sorte delle colline, un miracolo oleografico in pochi anni, Abbiamo trovato il terreno di tutti i colori, tranne del colore terra. Ha iniziato a scavare in quel posto un generale, Sergio Costa, oggi ministro dell’ambiente. In venti giorni vengono fuori fosse enormi. La cosa più bella che c’è la continuità criminale, appena un mese fa due aziende, che fanno capo a due cordate imprenditoriali, già finite davanti ai banchi della giustizia, hanno avanzato due richieste alla Regione Campania di voler realizzare su queste fosse tossiche due impianti per trattare altri ammendanti chimici . Una cosa che avrei voluto dure anche a Vincenzo De Luca, che non vedo più. L’unica sintesi che noi siamo ancora qua e non ce ne andiamo”.
Non se ne sono andati neppure tanti cronisti locali con le loro telecamere a piazza del Plebiscito, dopo aver aspettato per ore il premier Conte, che non gli concede interviste, eppure parla per molto tempo con “Le Iene”. La libertà di stampa passa anche da questi dettagli non trascurabili. E sul fatto che ci si può “arroccare” su un tweett, senza diritto di replica… Se non ci sono fili non ci saranno burattini e nemmeno burattinai.