Per raccontare chi è stato Emilio Rossi mi vengono in mente due parole: passione e solitudine. Passione, perché nella sua vita professionale, nell’essere giornalista, direttore, uomo di televisione, filosofo, grande consumatore di libri, teatro, cinema e musica… in tutto questo non era capace di risparmiarsi. Ci metteva l’anima, in tutto, voleva farlo al meglio, ottenere il massimo possibile da sé stesso e da chi gli stava intorno.
Solitudine, perché aveva rinunciato a una famiglia e mi ricordava, oserei dire, il modo più positivo di esaltare il profilo, lui laico, del celibato ecclesiastico, in modo da poter dedicare ogni istante al dover essere e al dover fare a favore degli altri.
Negli anni in cui lo incontravo praticamente ogni giorno, gli anni d’oro del neonato TG1, confermò la sua eccezionale tempra di lavoratore intelligente. Ci teneva in tensione con continue domande. Avevo spesso l’impressione che conoscesse già la risposta, ma voleva essere certo che anche noi avessimo il controllo della questione in gioco. Aveva trasformato il TG1 della sera in una finestra sul mondo priva di scuri o di veli, ma aveva chiara l’idea che dovesse farlo, in un’epoca di grandi contrasti e di oscure tragedie, senza perdere il senso della solidarietà, della coesione sociale, del rispetto per le istituzioni. La pietas e il coraggio dovevano prevalere sull’odio e sulla paura.
Aveva studiato e capito a fondo la televisione. A molti, troppi giornalisti, anche in RAI, sfuggiva e ancora sfugge la questione: il combinato disposto tra le immagini e il flusso della diretta crea un effetto realtà che è molto più potente delle sole parole. E quindi le immagini, come le parole, devono essere oggetto di attenzione, cura, scelta meticolosa. Allora le immagini disponibili erano in quantità incommensurabilmente minore a quelle di oggi: dunque dovevamo vederle tutte, e si arrabbiava se qualcosa sfuggiva al nostro controllo.
Già, le sue arrabbiature. Non erano frequenti ma nette, improvvise, sempre motivate dalla ferma convinzione di dover fare il meglio. Molti ricordano un pubblico e acceso scambio verbale con il segretario di un partito al governo. Sapeva bene che per la sua indipendenza era necessario restare lontano dalle frequentazioni politiche e da inutili relazioni sociali: “meglio una riunione di redazione in più e una cena di meno”, diceva. Con qualche frequenza assistevamo a scontri telefonici: alla fine sbatteva la cornetta sull’apparecchio, che gli addetti di via Teulada erano abituati a sostituire di tanto in tanto. Più tardi, segnato da una gamba irrigidita dopo l’attentato delle Brigate Rosse, capitava che sbattesse il bastone sul tavolo. Ma si opponeva solo a chi per ragioni di potere contrastava i suoi fermi convincimenti. Non ricordo invece di averlo visto davvero arrabbiato con i suoi collaboratori.
Dopo l’attentato Emilio Rossi si può dire non abbia lasciato la direzione del TG1 neanche un giorno, anche se dovette rimanere in ospedale molto a lungo. Emmanuele Milano, che da vice lo sostituiva, era in costante contatto con lui e del resto avrebbe potuto benissimo dirigere da solo; ma delegare le proprie responsabilità non era nelle corde di Rossi. Ricordo che Emmanuele lo ammetteva apertamente, con ammirazione e rispetto.
Dal punto di vista giornalistico, era alla ricerca continua del difficile equilibrio tra la completezza dell’informazione e i suoi approfondimenti. Quando necessario, imponeva che gli spazi informativi si dilatassero, adeguandosi all’attualità. Durante il sequestro di Aldo Moro, nel quale si susseguirono le edizioni straordinarie, Emilio Rossi instaurò un regime di emergenza redazionale 24 su 24. Nello scontro politico tra la linea della fermezza e quella del dialogo con i rapitori non prese posizione apertamente, ma di certo sofferse per Moro. In realtà si disse che Rossi fosse politicamente vicino alle posizioni di Moro, ma di certo non fu lui a dichiararlo.
Rossi, e molti di noi, fummo profondamente colpiti dagli interventi di Paolo VI, prima con l’appello ai brigatisti e poi con l’omelia del funerale. Nel punto massimo di una tragedia pubblica ci era apparsa l’apoteosi della sofferenza e della pietà cristiana.
Nell’adesione a questo comune sentire il lavoro collettivo del TG1 continuava senza soste. Era un telegiornale cattolico? Certo era molto attento ai temi e alle questioni religiose, e impegnato nell’etica della comunicazione. Ma era una redazione laica, nella quale erano felicemente inseriti giornalisti di fedi diverse. Sapevamo che Rossi era cattolico, ma certo non lo ostentava. Quando, lasciata la RAI, la Santa Sede gli affidò il rilancio del Centro Televisivo Vaticano, ricordo mi meravigliai: non mi ero mai accorto che Rossi tenesse relazioni privilegiate oltretevere.
CTV, presidenza del Comitato TV e Minori, presidenza dell’UCSI: in pensione Emilio Rossi continuò a prodigarsi con immutata energia, e con rinnovata libertà, per le cose in cui credeva. E tornò a scrivere: politica, filosofia, comunicazione. Interessi che mi pare lo accomunino a un altro uomo RAI d’altri tempi, diversissimo da lui: Jader Jacobelli.
Mi è particolarmente caro l’ultimo libro cui lavorò, terminandolo, ma che pubblicammo postumo: È tutto per stasera. Storia italiana, vicende politiche, RAI, un poco di autobiografia. In appendice abbiamo inserito due appendici essenziali, trovate nell’archivio di Rossi, che vorrei ricordare.
Il primo documento è un appunto scritto a Bernabei nell’aprile del 1975, prima della approvazione della legge di riforma, nel quale si esprimono dubbi sulla linea intrapresa anche dalla DC. “… la lottizzazione di un ente radiotelevisivo monopolistico fa a pugni con la natura, con la ragione, con la giustizia. La incompatibilità è di quelle che, per essere radicali, prima o poi si pagano… Lottizzare è una dichiarazione di impotenza: significa abdicare al compito di esercitare una mediazione unitaria e globale… Lottizzare significa spartire l’ex campo comune, un’aiuola per noi e una per voi… nell’aiuola per voi vi autorizzo, anzi vi esorto, ad assumere posizioni esplicitamente antagonistiche…”.
Il secondo documento è il programma editoriale del TG1 letto alla assemblea di redazione del 25 febbraio 1976, prima che venissero esercitate le micidiali “opzioni” che spaccarono il corpo redazionale. Si dovrà fare, scrisse Rossi, “un telegiornale ben fatto, cioè funzionale, rigorosamente corretto, pluralisticamente aperto, ospitale, senza reticenze, senza steccati confessionali o ideologici, senza compiacenti strizzate d’occhio verso chi è potente o chi è più alla moda, un telegiornale che sia rispettosamente al servizio della gente. Questo sembra anche il modo giusto di intendere la laicità del telegiornale: cioè il suo non essere strumentalizzato, il suo avere un valore in sé, nella sua intrinseca rispondenza a una libera, civile funzionalità…”.
Questo, mi sembra, è il lascito migliore di Emilio Rossi a tutti i giornalisti di oggi.