Il carcere come metafora

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di Rando Devole

Se per carcere intendiamo la privazione di libertà, l’Albania totalitaria, prima della caduta del Muro di Berlino, era in un certo senso un grande carcere con un sistema di scatole cinesi. Era un carcere il luogo dove venivano segregati i detenuti politici, era un carcere il paese dove venivano internati gli oppositori politici e le loro famiglie, era un carcere a cielo aperto tutta l’Albania da cui non si poteva uscire senza il permesso del regime.

In una certa misura, erano tutti reclusi, fisicamente e/o mentalmente: a cambiare erano gli spazi di contenzione e le sofferenze derivanti dalla detenzione. Ovviamente, sono da evitare relativizzazioni sulle responsabilità, come anche paragoni impropri tra chi penava nelle carceri e chi ne era fuori. Allo stesso modo è da cancellare ogni segno di uguaglianza tra le vittime del regime comunista e i carnefici che detenevano il potere.

Tuttavia bisogna riconoscere che il carcere nelle sue varie forme – dal reale al potenziale e al simbolico – era fortemente presente nella vita degli albanesi durante il regime stalinista. A riprova di ciò si deve ricordare che i fili spinati si estendevano addirittura lungo il confine e il verbo “evadere”, si usava anche per chi volesse lasciare il Paese ed emigrare all’estero, il che costituiva un reato penale e comportava serie conseguenze per tutti i familiari.

Il romanzo Piccola saga carceraria, di Besnik Mustafaj, appena pubblicato in Italia da Castelvecchi (Roma 2018, traduzione di Caterina Zuccaro) fa un’operazione molto interessante. Da un lato aggiunge al carcere nuove dimensioni spazio-temporali, dall’altro gli sottrae fisicità e tangibilità. Infatti, la trama del romanzo esce dai confini temporali del totalitarismo e si estende per tutto il Novecento balcanico, attraversando varie generazioni e diverse regioni. Poi si addentra nei sentimenti dei personaggi e nei loro rapporti col prossimo per descrivere l’altro carcere, quello immateriale, intangibile, invisibile, con muri e sbarre astratte, costruite nella mente delle persone. Un carcere di questo genere non è meno opprimente e pesante per l’individuo. Anzi.

Al centro della narrazione c’è il detenuto politico Bardhyl Huta, per la cui storia il carcere rappresenta una sorta di “filo nero” che attraversa la propria vita personale e familiare: egli è, infatti, nipote di un famoso detenuto di altri tempi e marito di una donna la cui famiglia era legata al carcere, seppure dall’altra parte delle sbarre. Sembra che Huta e la sua famiglia siano destinati al carcere. «L’evocazione del carcere aveva sempre gravato sulla mia famiglia come un incubo cieco» afferma Bardhyl, che in seguito viene imprigionato, facendo dire ai conoscenti che «gli Huta hanno il carcere nel sangue».

Il romanzo è diviso in tre parti. La prima è dedicata alla storia del nonno Oso Huta, incarcerato dopo aver contrastato i gendarmi del Re, e al rapporto con il proprio figlio, che cresce tra il tabù del carcere, l’assenza del padre e il mito alimentato dalla gente. Tutto gira vorticosamente intorno all’angoscia di un figlio cresciuto senza la figura paterna, ma sempre presente e ingigantita nella bocca altrui. «Oso Huta era indicato come l’unico vivente la cui vita venisse cantata». Sotto la spinta della fama del padre e sotto l’influenza della sua idealizzazione eroica, il figlio cresce in fretta ed entra prematuramente nella… Continua su confronti


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