Tre diverse iniziative pubbliche tenutesi a Roma in questi giorni mettono in evidenza posizioni assai diverse in materia di digitale, tra elaborazione teorica e governo dei processi di cambiamento, sottolineando distanza tra intellighènzia e potere, tra “morti viventi”, “blockchain” e ‘democrazia diretta’
Questa edizione della rubrica “ilprincipenudo” intende proporre alcune riflessioni critiche… per il fine settimana degli affezionati lettori, nel tentativo di portare “a sintesi” una serie di considerazioni maturate nel monitoraggio di iniziative pubbliche tenutesi nei giorni scorsi sulla piazza romana, quali una “lectio magistralis” di Alberto Abruzzese (classe 1942) sui “morti viventi”, una relazione di Sergio Bellucci (classe 1957) sulla “blockchain” nell’ambito della transizione verso il capitalismo digitale, una “lectio” di David Casaleggio (classe 1976) sulla “democrazia diretta”…
Una “sintesi” tra questi tre intellettuali (la definizione è calzante per tutti e tre, nonostante la diversità di età, percorsi, ideologie) è ardua intrapresa, quasi una provocazione intellettuale e politica. Forse anche di riflessioni eterodosse ed interdisciplinari si ha necessità, per una boccata di ossigeno rispetto al dibattito politico nazionale (le “contraddizioni interne” dell’alleanza “contro natura” tra Movimento 5 Stelle e Lega stanno emergendo progressivamente), e specificamente rispetto all’arena mediale, con particolare attenzione alla palude di Viale Mazzini, e di altre istituzioni culturali italiche.
Partiamo da Alberto Abruzzese, sociologo d’eccellenza ed intellettuale “inorganico”, che venerdì 2 novembre ha tenuto a Roma, nella cornice del Macro – Museo d’Arte Contemporanea Roma (nel nuovo corso affidato all’intraprendente antropologo transdisciplinare Giorgio De Finis, interessante esperimento laboratoriale di museo “aperto alla città” sul quale presto torneremo), una dotta lezione su “L’arte dei morti viventi” (la data è stata scelta “ad hoc”…).
Si è trattato di una lezione sul cinema dei “B-movies”, e magari specificamente sugli “zombie”, come qualcuno forse si aspettava, conoscendo peraltro la passione di Abruzzese per il cinema di genere, ed in generale per la cultura “pop” ovvero degli immaginari di massa (che il sociologo, secoli fa, ha contrapposto allo snobismo di certa cultura “alta” tanto amata dalla sinistra storica)? No. Abruzzese ha proposto una serie di provocazioni oscillanti tra “società”, “politica”, “arte”, enfatizzando che sia quasi meglio teorizzare un ritorno dei “morti viventi” (in senso lato), a fronte di un governo del mondo che sembra essere prevalentemente in mano a umani “vivi”, ma sostanzialmente “morti”: meglio i “morti viventi” che i “viventi morti”.
Al di là dei simpatici paradossi e dei giochi di parole, questi sono alcuni concetti estrapolati dalla sua lezione: il “desiderio di arte” ancora sopravvive – come carne sofferente – alla morte dei corpi della società. Sono morti (o sembrano morti?!) i “corpi”, anche quelli intermedi: dai partiti ai sindacati, dalla scuola alla stessa famiglia… “La democrazia è crollata”, ma il desiderio di arte sopravvive. Dalle avanguardie storiche, come espressione estrema della volontà di potenza dell’arte, alle storie di sperimentazioni espressive personali in conflitto con la civiltà dei consumi… Di fronte alla crisi senza ritorno dell’umanesimo moderno e postmoderno, i linguaggi etici ed estetici restano nella “terra di mezzo” tra vita vissuta delle persone ed impotenza delle professioni: compresa quella dell’arte. “Il sacro si interessa della morte, la religione del vivente…”.
Alberto Abruzzese ha ridimensionato il carattere “sconvolgente” che molti attribuiscono al web, almeno a livello semantico (gli infiniti flussi conversazionali della rete, inclusi i “discorsi d’odio”): “tutto quel che accade nella rete, è sempre accaduto”. Abruzzese sembra sostenere che ci si deve rassegnare ad accettare il “maligno” che alberga in ognuno di noi (ed il web tende ad amplificare anche questa dimensione dell’umano), senza particolari illusioni in una catarsi che ci accomuni tutti verso il bene (se Dio è morto, anche la rivoluzione è bella che seppellita, ci verrebbe da sostenere, e peraltro già da anni Abruzzese teorizzava “l’anemia della sinistra”: si ricordi il suo romanzo “Anemia” – da cui è stato tratto nel 1985 anche un film –, che raccontava la trasformazione in vampiro di un funzionario comunista)… Ed anche un fenomeno come i “selfie” può essere considerato una espressione artistica (questa affermazione ha infastidito non pochi dei presenti), superando l’illusione che la funzione dell’arte sia “contrastare il consumo”.
Se la democrazia è una espressione del capitalismo, ci si deve domandare se questa forma è superata, alla luce di quel che sta determinando il digitale…
La corposa e densa lezione di Abruzzese ci ha mostrato un intellettuale “vecchio” – nel senso nobile del termine – e saggio, ma che ci è parso piuttosto rassegnato al “naturale” corso delle cose. Un intellettuale che si interroga con disarmante sincerità anche sul proprio ruolo (storico ed attuale) come ricercatore ed accademico…
Ricordando il carattere innovativo e provocatorio del suo saggio del 1982 (quarantacinque anni fa!), “Il fantasma fracassone: Pci e politica della cultura” (edizioni Lerici), abbiamo posto una domanda ad Alberto Abruzzese: “cosa suggeriresti, in termini di politica culturale, se fossi consigliere del Ministro della Cultura?!”. In quel libro, Abruzzese denunciava che il Partito Comunista Italiano aveva perso contatto con la società perché non aveva compreso il ruolo dei mass media. Così come oggi – verrebbe da teorizzare – il Partito Democratico ha perso il contatto con la società, perché non ha compreso il ruolo del digitale. Spiazzante la risposta: “l’elemento fondamentale su cui la politica culturale dovrebbe intervenire è la formazione umanistica, la formazione di coscienza critica del cittadino”.
Tutt’altro approccio, e lettura ideologica, e impegno politico, in una non meno dotta e densa lezione, proposta da Sergio Bellucci, già dirigente politico (Responsabile Comunicazione di Rifondazione Comunista), giornalista (direttore di “Liberazione”), sindacalista (in Cgil nei primi anni di Mediaset/Fininvest), e più recentemente ricercatore e saggista specializzatosi nelle conseguenze (socio-economico-politiche) della rivoluzione digitale (fondatore del “think tank” Net Left): ha tenuto una lunga relazione in occasione del seminario promosso dalla Cgil e specificamente dalla Fisac (Federazione Italiana Sindacato Associazioni Credito), lunedì scorso 5 novembre, dal titolo “Blockchain: apriamo i confini alle nuove frontiere”.
Discutere delle conseguenze possibili della “blockchain”, nell’economia del sistema bancario – ma non soltanto – di fronte ad una platea di sindacalisti della Cgil, è stato intrigante, allorquando, secondo alcune previsioni, nell’arco di pochi anni addirittura un 95% (leggasi: novantacinque-per-cento) della forza-lavoro nel settore potrebbe soccombere (cioè essere espulsa dal mercato del lavoro, sostituita da… “macchine”), di fronte ai sempre più evoluti processi digitali ed alle applicazioni dell’intelligenza artificiale. Quale il possibile ruolo del sindacato, di fronte ad una simile sconvolgente prospettiva?!
Bellucci ha spiegato come soggetti quali Google e Facebook ed Amazon stiano guardando il “mondo bancario” con grande attenzione, e finanche prudenza esplorativa, ma verosimilmente potrebbero entrarvi con prepotenza: una “Banca Amazon” è una opzione assolutamente possibile e concreta, e ci si può immaginare che conseguenze potrebbe determinare un ingresso in campo a gamba tesa di simili potentissimi “player”, capaci di una potenza di gioco inimmaginabile.
Bellucci ha sostenuto che la prospettiva “blockchain” presenta comunque, al di là delle criticità latenti, aspetti più positivi che negativi, dato che consente (almeno in teoria, aggiungiamo noi) di scardinare alcuni assetti del sistema di potere consolidato, ed apre quindi chance liberatorie, nella direzione di processi decisionali più partecipati e trasparenti.
La “blockchain” più che una tecnologia è un paradigma, un modo di interpretare il grande tema della decentralizzazione e della partecipazione. Esiste anche un nesso possibile tra “blockchain” e democrazia, come possibile strumento di partecipazione diretta ai processi decisionali. Insomma, non si tratta soltanto di intonare il requiem per i notai, molta altra musica è in ballo.
La questione va infatti ben oltre le conseguenze nei vari settori del mondo del lavoro, e stimola una riflessione critica complessiva su quel che sta avvenendo – nell’economia e nella società e finanche nelle nostre individuali esistenze – a seguito dei sempre più diffusi processi di “disintermediazione”, provocati dalla rivoluzione digitale.
Bellucci non può certo essere annoverato nella fazione dei tecno-entusiasti, ma è convinto che il digitale abbia potenzialità liberatorie notevoli, se si riuscirà a guidarne lo sviluppo in una direzione democratica e partecipativa (e questo dovrebbero fare i partiti, e lo Stato).
Terza occasione di riflessione quella con Davide Casaleggio, che è stato il protagonista del primo incontro di un format relazionale – denominato “In Persona” – promosso dall’Agol(Associazione Giovani Opinion Leader) alla Casa del Cinema di Roma, lunedì scorso 5 novembre.
Si è trattato di una delle rare sortite (pubbliche) di colui che viene considerato l’“eminenza grigia” del Movimento 5 Stelle: il settimanale “Panorama”, nell’edizione del 4 ottobre, gli ha dedicato la copertina, intitolando “Non siamo i burattinai di nessuno”.
Un incontro durato oltre un’ora (iniziato peraltro con un’ora di ritardo, senza che nessuno, a cominciare dal “guru”, avesse la grazia di scusarsi, e già questo dettaglio è sintomatico di un “mood” relazionale e culturale), che non ha proposto nulla di particolarmente nuovo, ma ha consentito di comprendere meglio l’atteggiamento (ideologico, anzi – sia consentito – spirituale) rispetto ad alla rivoluzione digitale. Non è stata data chance di dibattito.
Uno dei temi affrontati da Casaleggio è stato proprio la “blockchain”: “quando si pensa alla quarta rivoluzione industriale, bisogna pensare a tutto tondo: dovremmo essere noi i ‘digital champions’, per creare il futuro Amazon della blockchain. Ci sono delle condizioni che devono essere create in Italia e non ho dubbi che si creeranno”. Ottimismo veramente a gogò, così come ipotizzare una Netflix “made in Italy”…
Nel corso della conferenza, Casaleggio ha ricordato – in modo sereno e col solito tono pacato, quasi distaccato, algido (zen?!) – quali potrebbero essere i rischi di un mercato del lavoro che si trova a fronteggiare mutamenti molto rapidi, tanto da coinvolgere lavoratori appartenenti a una stessa generazione: “noi stiamo vivendo una realtà che non riusciamo a percepire. Pensiamo ai progressi esponenziali del blockchain, una vera e propria infrastruttura rivoluzionaria, o dell’intelligenza artificiale, che massimizza la produttività delle industrie che ne fanno uso. Mai era capitato che il progresso tecnologico fosse più rapido dello scorrere di una generazione… Questo vuol dire che non c’è il tempo per consentire a una nuova generazione di lavoratori di formarsi per rispondere alle mutate esigenze del mercato del lavoro. Inevitabilmente, questo lascia e lascerà fuori dall’attività lavorativa tante persone, perché le occupazioni di massa saranno rimpiazzate. Questo rende indispensabile puntare sulla formazione, per riconvertire le persone verso nuove professioni”. Si tratta di una… “formazione” certamente ben diversa rispetto a quella che auspica Alberto Abruzzese!
Crediamo che la dialettica tra “umanesimo” e “tecnocrazia” determinerà presto uno scontro epocale, fondamentale per il futuro delle nostre esistenze.
Il ‘guru’ della Casaleggio Associati si è ben guardato dall’evidenziare che molta parte della forza-lavoro è destinata all’espulsione dal mercato e che i “nuovi lavori” compensano una minima parte di quelli “distrutti” dall’evoluzione digitale. Ma che Casaleggio avesse un approccio positivo, anzi entusiasta, rispetto al digitale… era naturalmente prevedibile.
Sul tema della “cittadinanza digitale”, l’opinione di Casaleggio è netta, ed anche qui totalmente ottimista: “è il progresso tecnologico a fare sorgere nuove esigenze e nuovi diritti da tutelare. Se secoli fa è stata l’invenzione della stampa di Gutenberg, a far nascere la libertà di stampa, oggi è la rete a creare nuovi diritti e nuovi modi di partecipare alla vita della comunità. A Parigi, come a New York, migliaia di persone partecipano a ‘bilancio partecipato’, e magari ci arriveremo anche in Italia…”. Anche nelle parole di Casaleggio, l’idea che la “democrazia” – per come l’abbiamo interpretata fino ad oggi – possa essere “un concetto superato”: prospettiva che francamente riteniamo comunque inquietante…
Casaleggio ha anche evidenziato che i “nuovi diritti” possono essere in conflitto tra loro: “pensate al diritto all’oblio. Da una parte, c’è il diritto, per chi lo desidera, di vedere cancellate le proprie tracce sulla rete (dati che oggi sono in mano a giganti della tecnologia come Google e Facebook). Dall’altra parte, però, c’è il diritto a poter scrivere la storia. Perciò, se una persona si è macchiata di gravi crimini, come atti terroristici, è giusto che ne resti testimonianza…”.
È veramente impossibile portare ad “unità” tre interpretazioni della realtà così differenti, e – per alcuni aspetti – contrapposte, in verità confliggenti tra loro: un intellettuale stancocome Alberto Abruzzese, che sembra rassegnato al naturale corso delle cose ma auspica un umanesimo critico; Imposta immagine in evidenzaun intellettuale attivista come Sergio Bellucci che critica il digitale sulla base di un approccio marxiano segnalando che debbono essere radicalmente modificati gli approcci di lettura sistemica della transizione in atto; un tecnico-tecnocratecome David Casaleggio che è convinto delle “magnifiche e progressive sorti” del digitale (e del capitalismo digitale)…
Sarebbe veramente interessante mettere “a confronto” i tre, in un dibattito plurale ed aperto…