Mentre il Senato sta discutendo sulla conversione in legge del decreto Salvini su immigrazione e sicurezza, si moltiplicano i segnali che la gestione del fenomeno dell’immigrazione è stata incanalata su un binario sbagliato che può portare soltanto al moltiplicarsi dei conflitti e rendere l’aria irrespirabile. La vicenda di Riace, con l’esilio del sindaco Lucano e la chiusura del progetto SPRAR decretata dal Ministero dell’Interno pone fine ad un modello di convivenza felice fra il popolo dei migranti e la popolazione italiana che è stato studiato ed apprezzato sul piano internazionale. Nello stesso tempo il decreto sicurezza ridimensiona in senso fortemente penalizzante l’intero sistema dell’accoglienza, sia con riguardo alla platea dei destinatari, sia con riguardo all’accesso e fruizione dei progetti di inclusione. Il decreto colpisce quelle attività che sono rivolte all’integrazione dei migranti nel tessuto sociale e, eliminando il permesso di soggiorno per motivi umanitari, produce clandestinità, provocando la crescita in Italia di una popolazione di stranieri non integrabile, destinata ad essere esclusa per legge dal godimento dei diritti fondamentali. Non dobbiamo stupirci, pertanto, se in Italia attraverso il lavoro in nero dei migranti irregolari si creino delle nuove forme di schiavitù.
Il messaggio di ostracismo allo straniero lanciato da questo tipo di politica, discende per i rami ed arriva anche ai livelli più bassi, come dimostra la vicenda dell’apartheid della mensa per i bimbi della scuola elementare decretato dal Sindaco di Lodi, che non colpisce i clandestini ma i figli di immigrati regolarmente residenti e nella maggior parte dei casi nati in Italia. I drammatici costi umani di questa politica sono certificati dalla vicenda di quel giovane del Gambia che il 15 ottobre a Taranto si è tolto la vita dopo che la sua richiesta di asilo è stata rigettata.
In definitiva sono stati messi in moto tutta una serie di meccanismi politici, legislativi ed amministrativi che convergono verso lo stesso risultato: avvelenare i pozzi della convivenza nel nostro paese.
Nel dicembre del 1992 un vescovo animato da un forte spirito profetico, Mons. Tonino Bello, condusse un’impresa incredibile, guidò una marcia di 500 disarmati che ruppe l’assedio di Sarajevo ed impose una tregua di fatto, per qualche giorno, ai belligeranti. In quell’inferno di conflitti etnici, religiosi e politici che stavano dilaniando la Bosnia, Mons. Bello concepì questa definizione della pace: “la pace è la convivialità delle differenze”.
Del resto la convenzione dell’ONU contro la discriminazione razziale si fonda sul presupposto che “la discriminazione fra gli esseri umani per motivi fondati sulla razza, il colore o l’origine etnica (..) è suscettibile di turbare la pace e la sicurezza fra i popoli nonché la coesistenza armoniosa degli individui che vivono all’interno di uno stesso Stato”.
Il compito di ogni Stato è di assicurare la convivenza pacifica. Per questo, non solo, per ragioni morali, la nostra Costituzione ha delegittimato ogni politica che miri a costruire delle discriminazioni.
Se si vuole la coesistenza armoniosa degli individui che vivono all’interno dei confini dello Stato italiano, la politica deve operare per rendere conviviali le differenze, mentre i messaggi culturali ed i provvedimenti emanati dagli attuali decisori politici puntano proprio ad ottenere l’effetto contrario, rendere sempre più difficile la convivenza.
Si avvelenano i pozzi dove sgorga l’acqua della convivenza, ma quell’acqua la dobbiamo bere tutti.
di Domenico Gallo edito dal Quotidiano del Sud