24 marzo 1980. La voce di monsignor Oscar Arnulfo Romero y Gadàmez viene stroncata durante la Messa da un colpo di pistola sparato da un sicario della dittatura militare. Un audio ancora lo testimonia, L’arcivescovo di San Salvador aveva appena consacrato il pane e il vino sull’altare della cappella dell’Hospitalito, l’Ospedale della Divina Providenza, sempre a San Salvador, dove si curano i malti terminali di cancro e dove aveva scelto di vivere in una casetta messa a disposizione dalle Suore Missionarie Carmelitane di Santa Teresa. All’Hospitalito, tutto ancora parla del “monseñor”, ucciso perché era diventata scomoda la sua voce di denuncia delle ingiustizie, delle uccisioni e delle violenze subite dalla gente e dagli oppositori politici per mano degli squadroni della morte.
Proprio all’Hospitalito la voce di monsignor Romero risuona nella sua casetta, trasformata in “Centro storico” per far conoscere ai visitatori chi era e come viveva il vescovo dei poveri nato a Ciudad Barrios il 15 marzo 1917 e ordinato sacerdote a Roma il 4 aprile 1942. “La casa di monsignor Romero è un luogo di incontro con lui, un luogo di pace”, racconta con emozione suor Rubì Lemos, anch’essa Missionaria Carmelitana di Santa Teresa come le suore che 38 anni fa hanno raccolto il corpo insanguinato di Romero. “Noi – aggiunge la religiosa – ci sentiamo responsabili nel tenere viva la sua presenza in questo luogo”. Suor Rubì, in particolare, ha il compito di guidare i visitatori nei piccoli spazi vissuti dal vescovo, tra cui la stanza da letto arredata con pezzi avanzati dall’ospedale. Sul comodino e su una parete campeggiano le foto di Paolo VI, il Papa con il quale mons. Romero aveva una buona sintonia e con il quale è stato canonizzato domenica scorsa, 14 ottobre 2018.
Mons. Romero viene consacrato vescovo nel 1970 e poi, nel febbraio del 1977, viene nominato arcivescovo di San Salvador. La giunta militare pensava che quel vescovo non desse fastidio. Ed invece, un mese dopo, quando il 12 marzo 1977 viene ucciso il gesuita padre Rutilio Grande, voce dei poveri e dei contadini oppressi dal regime, amico e confessore di Romero, “El monseñor” capisce qual è la sua strada. “Quando guardai Rutilio che giaceva morto davanti a me, pensai: – confiderà Romero – se lo hanno ucciso per ciò che faceva, allora io devo seguire il suo stesso sentiero”. E così sarà. Sospende ogni iniziativa con il Governo finché non venga fatta luce sull’omicidio di padre Rutilio. Rifiuta di sostenere il Governo che reagisce chiudendo le scuole cattoliche e perseguitando i sacerdoti. Denuncia gli abusi di potere, le ingiustizie, la corruzione pianificate dalla dittatura militare. Durante le Messe diffuse via radio, diventa cronista degli omicidi eseguiti dagli squadroni della morte e indica dove vengono commesse le stragi. Nella vibrante omelia del 23 marzo 1980 – anche di questa esiste l’audio – mons. Romero ricorda ai soldati che stanno uccidendo i fratelli dello stesso popolo; li supplica di “non uccidere”, perché “nessun soldato è tenuto ad obbedire ad un ordine contrario alla Legge di Dio. E poi conclude: “Vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!”.
La teologia del popolo di monsignor Romero non fa più sentire soli i salvadoregni oppressi dal regime. In quell’uomo la gente ritrova la speranza di un Salvador dove ognuno ha l’opportunità di una vita degna. Tutto questo, però, scombina i piani di una dittatura sanguinaria e famelica che assolda un sicario per uccidere Romero il 24 marzo 1980. Poi, il 30 marzo, Domenica delle Palme, durante il funerale dei cecchini appostati alle finestre del Palazzo nazionale sparano sulla folla che riempie la piazza della cattedrale di San Salvador e il rito funebre, tra gli spari e la calca, si trasforma in una strage: 40 morti e 200 feriti, ricorda Gaspàr Romero, fratello del vescovo, in un’intervista pubblicata l’11 ottobre 2018 dal quotidiano salvadoregno “El Mundo”.
Quei fatti del 1980 accelerano l’inizio della guerra civile che termina nel 1992. Ma i salvadoregni ancora aspettano la verità sugli omicidi di Romero, di suore, sacerdoti e migliaia di civili. Il 10 ottobre scorso, in una manifestazione nella Piazza Divino Salvatore del Mondo, a San Salvador, la Procura per la difesa dei diritti umani e altre organizzazioni della società civile tornano a chiedere pubblicamente l’agevolazione delle indagini e la fine dell’impunità sull’assassinio di Romero.
“Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno”: le parole di Romero si riveleranno profetiche, così come si rivelerà profetica una foto esposta al “Museo della parola e dell’immagine” di San Salvador, che ritrae Romero mentre si affaccia su Piazza San Pietro, la stessa piazza nella quale domenica 14 ottobre 2018, Papa Francesco lo dichiara Santo, vescovo e martire “in odium fidei”. È il primo Santo salvadoregno.
Il popolo del Salvador da tempo aspettava questo momento. Per il popolo di Romero, “El monseñor” era già Santo. Ma, la mancanza di conoscenza della storia latinoamericana degli anni ’80 in Centro America e una discutibile visione dell’incarnazione della teologia, rallentano l’iter verso la santità di Romero. Solo un Papa latinoamericano, un pastore come Jorge Bergoglio, che conosce “l’odore delle pecore”, può togliere ogni dubbio, ogni macchia infamante sulla santità di Romero, il vescovo dei poveri. E così si arriva ad iscrivere nella schiera dei Santi anche San Oscar Arnulfo Romero, per i salvadoregni San Romero de America da invocare – come si legge su un murale – per “costruire un nuovo El Savador, più giusto, più inclusivo, più solidale”.