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Salvate la giornalista Seda Taşkın: condannata a 7 anni e mezzo di carcere con prove confezionate ad hoc

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Seda Taşkın è solo una delle tante giornaliste e giornalisti curdi, insieme a İdris Yılmaz, İdris Sayılgan e Şerife Oruç che marciscono da mesi in carcere senza prove concrete. L’obbiettivo del governo è chiaramente di impedire loro ti svolgere le proprie inchieste e pubblicare articoli invisi al governo turco soprattutto su un tema sensibile come il contesto curdo nel sud-est della Turchia. E’ la stessa sorte che è toccata anche ad altri loro colleghi come Nedim Türfent, Meltem Oktay, Zehra Doğan, condannati già a diversi anni di carcere dopo sentenza definitiva. Inviata a Muş, cittadina della Turchia orientale localizzata in una pianura circondata da alte montagne, Seda Taşkın, sul posto per effettuare inchieste per conto dell’agenzia di stampa Mezopotamya, è stata seguita ed infine arrestata dalla polizia antiterrorista. La prima stortura nell’affaire Seda è proprio l’arresto: la giornalista è stata arrestata nel dicembre 2017 mezz’ora prima che un pubblico ministero emettesse il mandato di arresto.
Alla prima udienza del tribunale, Taşın ha dovuto difendersi, come centinaia di altri giornalisti curdi e turchi prima di lei,  dall’accusa di “appartenenza e propaganda per contro di un’organizzazione terroristica”. Ma le prove contro la giornalista, ha ammonito il suo avvocato Gülan Çağın Kaleli , sono povere, inesistenti. Secondo Mapping Media Freedom, che ha seguito il caso, durante il processo è venuto fuori che le prove contro la giornalista sono state inviate via mail da un indirizzo con estensione “egm” che poi è quello del dipartimento di polizia. Molto probabile dunque che le informazioni contro Seda Taşkın siano state fabbricate ad hoc dalle stesse unità antiterrorismo che hanno provveduto ad arrestarla con una solerzia sospetta: ovvero dopo pochi minuti dall’invio di una e-mail e mezz’ora prima che un tribunale emettesse un mandato di arresto. L’avvocato che difende la giornalista ha chiesto che la fonte di posta elettronica fosse identificata attraverso l’indirizzo IP, ma il tribunale  ha inspiegabilmente respinto la richiesta.
“E’ una messa in scena, la polizia ha creato le prove, lo stato l’ha arrestata”, ha chiosato amaro Hakkı Boltan, co-presidente della Free Journalists Initiative (ÖGİ), associazione di giornalisti con sede a Diyarbakır che controlla le violazioni della libertà di stampa e assiste i giornalisti imbrigliati in processi nelle province curde. Al momento del suo arresto Seda Taşkın stava lavorando al caso di una una donna di 78 anni arrestata nel giugno 2016 nel distretto di Varto a Muş con l’accusa di terrorismo e condannata a quattro anni e due mesi di prigione. Reportage come quelli di Seda, ha ricordato Boltan, sono considerati una minaccia per lo stato, in quanto rivelano aperte violazioni e abusi da parte della polizia. Dalla prigione femminile di Sincan, dove è rinchiusa, Seda ha raccontato di essere stata perquisita nuda e picchiata al momento del suo arresto. Il paradosso è che le prove contro la giornalista si limitano ai retweet e alla condivisione su Facebook di articoli di stampa. Non c’è nemmeno un singolo articolo scritto da Taşkın nel fascicolo contro di lei. Già da oltre dieci mesi in prigione senza uno straccio di prova, ora un tribunale l’ha condannata a 7 anni e 6 mesi di reclusione per “propaganda terroristica”. Per lei e per i centinaia di giornalisti dietro le sbarre in Turchia sarebbe necessaria una mobilitazione a livello europeo. Ma il peso economico della Turchia in Europa è cosi forte che a livello politico niente accadrà ed il governo turco potrà dunque continuare indisturbato la sua opera di epurazione della stampa libera.

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