Mentre i corpi infilati dentro i sacchi venivano scaricati sulla banchina, qualcuno li contava, qualcun altro li segnava sul taccuino, qualcuno guardava e qualcuno si sforzava di guardare da un’altra parte. Ma non c’era nessuna via di fuga per lo sguardo, nessun orizzonte libero per noi.
Quei sacchi presto riempivano tutto il molo e, proprio all’inizio della banchina, sostava il camion dove i corpi venivano ammassati uno sopra l’altro per il trasporto nell’hangar. Non serviva neppure guardare il mare, perché subito scrutavi un’altra motovedetta in arrivo col suo carico di morte da scaricare.
Tenendo gli occhi chiusi, era l’odore a ricondurti immediatamente lì, in quel luogo preciso, dove i corpi non erano più sommersi dalla calma del mare e mostravano il volto giovane, la pancia gonfia d’acqua, i vestiti inzuppati, i crocifissi appesi al collo oppure i capelli intrecciati di una bambina col vestito della festa.
Sono trascorsi cinque lunghi anni da quel giorno e, come ogni anno, ci chiediamo cosa è cambiato. Sinora mi sono sforzata, ogni 3 ottobre, di esaminare quel bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. L’irrompere di Mare Nostrum, la prima operazione umanitaria nel Mediterraneo, non poteva che riempirci di fiducia nel cambiamento dell’approccio verso le migrazioni forzate nel Mediterraneo. La stessa agenda della UE, sotto la pressione dell’opinione pubblica, fu costretta a occuparsi di migrazioni. Vero è che la montagna partorì il topolino, con quel piano di ricollocamento dei rifugiati che prevedeva la distribuzione nei Paesi UE -in due anni -soltanto di 160 mila persone che erano sbarcate in Italia o in Grecia. Vero è che a oggi meno di 15 mila persone sono state ricollocate dall’Italia. Ma era pur vero, anche, che si trattava della prima deroga alle regole di Dublino e che la UE riconosceva che sulle fragili frontiere del Mediterraneo si stava scaricando, da troppo tempo, una tragedia epocale che esigeva delle risposte diverse, condivise, solidali. E dopo la chiusura di Mare Nostrum, la risposta del volontariato nazionale e internazionale nel soccorso in mare aiutò a salvare vite e a tenere accesa la mobilitazione civile nel Mediterraneo. Il 3 ottobre diventava Giornata nazionale della Memoria delle vittime dei naufragi, un modo per assumere un impegno contro le stragi causate dalla Fortezza Europa. La conta dei morti, però, è sempre proseguita senza soste e ben presto il grande naufragio di Lampedusa, quello dei 368 eritrei morti a un passo dall’isola della salvezza, diventò più piccolo davanti a quello che nell’aprile 2015 falciò forse addirittura 900 vite.
Abbiamo insomma nutrito, in quegli anni che oggi sembrano lontani un secolo, non la speranza ma l’aspettativa di un cambio di passo in Europa nelle politiche migratorie e di asilo, che avrebbe dato la spinta a ricondurre il progetto europeo ai suoi valori fondativi, innescando processi non solo di integrazione per rifugiati e immigrati, ma anche di coesione interna, di lotta alle povertà e alle marginalità tutte, di lotta alle disuguaglianze, di estensione e rafforzamento delle politiche sociali, di riqualificazione e valorizzazione delle periferie e dei tanti Sud interni ai nostri Stati, nonché dei confini esterni che spesso coincidono con le isole o territori comunque fragili, luoghi della fascia costiera, di grande importanza naturalistica e altrettanta bellezza, ma degradati dall’abbandono connesso col destino di frontiera.
Abbiamo creduto che l’Europa potesse decidere di affacciarsi di nuovo sul Mediterraneo, per proteggerlo da trivellazioni e sversamenti e farne il cuore delle politiche di sviluppo sostenibile: pesca, turismo, scambi commerciali, di energie pulite e innovazione, di cultura e bellezza. Perché di questo si tratta: eliminare il clima emergenziale nell’accoglienza e fare del Mediterraneo un campo per coltivare pace, giustizia e sviluppo, equivale a sottrarre al populismo la potentissima arma del tema dell’immigrazione, che non è soltanto percepita, ma spesso realmente vissuta da molti come invasione, degrado, turbamento della quotidianità presente e pericolo per il proprio futuro. L’invasione non c’è e non c’è mai stata. La paura dell’invasione è diventata invece reale, per un insieme di ragioni e per colpa di tanti che hanno raccontato una storia diversa e soffiato sul fuoco.
Intanto, in Italia si approvava la legge contro il caporalato, si riformava la normativa sui minori non accompagnati, si recuperavano relitto e corpi del naufragio del 18 aprile 2015, si istituiva il numero verde contro la tratta, ad Agrigento si condannava a 30 anni di carcere uno degli organizzatori del viaggio che portò alla morte i 368 eritrei… Non si riformava, però la Bossi-Fini, non si riformava la legge sulla cittadinanza, non si pianificava una rete articolata di accoglienza sul territorio nazionale, rendendo lo SPRAR un meccanismo agevole e conveniente per i Comuni, ma proliferavano CAS improvvisati, alimentando affari e malaffare attorno alla gestione dei Centri.
Oggi, proprio come succedeva 5 anni fa sul Molo Favaloro, è impossibile sfuggire al disgusto orientando lo sguardo al di là dei porti chiusi e dei respingimenti in mare, delle navi vaganti coi naufraghi a bordo. Al di là dell’Italia sfigurata dall’allarme razzismo, dalla persecuzione del volontariato, dalla criminalizzazione della solidarietà, c’è l’Italia rappresentata in Europa dagli amici di Orban e Casa Pound, governata da chi esulta non per avere sgominato mafia, camorra e ‘ndrangheta, ma perché viene arrestato un sindaco che ha saputo dimostrare al mondo che l’accoglienza può addirittura sconfiggere degrado e abbandono, a Riace come nei tanti territori in via di spopolamento del nostro Paese.
Il corto circuito non è però avvenuto all’improvviso, l’italia non si è trasfigurata all’improvviso, le comunità democratiche non si avvelenano come i pozzi dall’oggi al domani. Sembra tutto nuovo, incredibile e irreale ciò che sta avvenendo attorno a noi, invece è tutto terribilmente e banalmente vecchio, già visto.
Dobbiamo allora sentire l’urgenza di difendere strenuamente quei presidi di umanità e democrazia che stanno resistendo e combattendo, come l’Aquarius o Riace, e di lanciare una controffensiva morale contro il progressivo imbarbarimento di questo tempo, con tutti gli strumenti a nostra disposizione.
La Giornata della Memoria è uno di questi strumenti, nonostante il MIUR oggi abbia smesso di sostenere il viaggio degli studenti fino a Lampedusa. Deve essere, per noi, l’occasione per spiegare alle persone di buona volontà la pesantezza dei dati sui morti, che si moltiplicano in modo vergognoso proprio ora, quando gli arrivi sono drasticamente diminuiti.
Come possiamo sperare in un futuro migliore per l’Italia e l’Europa intera, se continuiamo a ritenere normale tutto questo scempio di vite e di diritti?