di Gianluca Prestia
Quella mattina del 6 giugno del 2004, in località Cocari, a Vibo Valentia, c’erano tutte le più alte personalità politiche, militari ed ecclesiastiche della provincia.
Una cerimonia in pompa magna a certificare un evento importante, epocale per il territorio: la posa della prima pietra del nuovo presidio ospedaliero. Ma quello apposto dall’allora vescovo Domenico Cortese alla presenza del dg dell’Azienda sanitaria, Armando Crupi, resterà l’unico mattone di un’opera che a distanza di 15 anni ancora attende di essere realizzata.
Una farsa, una barzelletta che però aprì gli occhi agli investigatori guidati dal pm Giuseppe Lombardo che potè contare sull’incredibile fiuto di un “segugio” dell’Arma, il luogotenente Nazzareno Lopreiato.
Furono le loro indagini a far scoppiare lo scandalo “Sanitopoli” che, poco più di un lustro dopo, spalancò le porte allo scioglimento per mafia dell’Azienda sanitaria, travolta dal cancro del malaffare che, come metastasi, si era radicato nella maggior parte degli uffici.
Correva l’anno 2010, giorno 18 dicembre. Tutte le risultanze degli accertamenti sulle metodologie usate per l’assegnazione degli appalti, il personale che lavora nell’Azienda e nell’ospedale e tutte le procedure seguite, avevano convinto i commissari dell’Asp prima e l’intero comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza poi che quella dei condizionamenti mafiosi era ben più che un’ipotesi. E tutto ciò faceva il paio con quanto aveva accertato la Guardia di finanza in una sua relazione inviata all’Alto commissario per la lotta alla corruzione, che nel febbraio 2008 era stata desecretata dalla Commissione parlamentare antimafia.
I finanzieri conclusero la loro relazione evidenziando le «criticità riscontrate», a cominciare dalla «presenza di esponenti della criminalità organizzata tra il personale dipendente di ditte giudicatrici di appalti». Non basta. Fu riscontrata anche «l’aggiudicazione di appalti a rotazione tra un numero limitato di imprese, tali da far ritenere che tra le stesse potessero esistere un possibile accordo per favorire imprese in odore di mafia; presenza di dipendenti dell’Asl, assunti a tempo determinato e indeterminato, appartenenti alle cosche criminali locali, altri con procedimenti penali anche in corso».
Le motivazioni dello scioglimento descrivevano un quadro ancor più allarmante: «Le famiglie mafiose dei Lo Bianco, dei La Rosa e dei Gasparro-Fiaré risultano essere in rapporti di relazione diretta e/o indiretta con personale dipendente dell’Asp”, veniva riportato. Clan che come una piovra si erano insinuati nella vita di Palazzo ex Inam condizionando gli appalti, compreso quello per la realizzazione del nuovo ospedale (caso finito a processo e caduto, come la maggior parte dell’inchiesta con i reati in prescrizione).
Da Vibo a Locri, dal Tirreno allo Ionio, superando l’Appennino, la strada è breve è la situazione non cambia. Gli investigatori erano stati inviati dal Prefetto di Reggio, su delega del ministro dell’Interno Pisanu, presso l’Azienda sanitaria poco dopo l’eclatante omicidio dell’allora vice presidente del consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno (16 ottobre 2005) portando alla luce una situazione di estrema gravità in cui il malaffare e l’illegalità erano praticamente all’ordine del giorno ed appannaggio delle ‘ndrine locali.
Un giro d’affari per milioni di euro, quello gestito dall’Asp locrese dalla quale dipendevano gli ospedali cittadino e quello della vicina Siderno.
Scriveva il ministro nella sua relazione del 26 aprile 2006: «Significativi elementi di collegamento con le associazioni mafiose si deducono dalla stipula di convezioni tra l’Azienda e società, associazioni e cooperative senza fine di lucro operanti nel sociale, alle quali sono stati erogati ingenti flussi di denaro senza che siano stati operati i dovuti controlli sulla effettiva utilizzazione dei fondi percepiti. Le possibili cointeressenze risalgono alla circostanza che fra i soci risultano soggetti sia gravati da precedenti penali che appartenenti a cosche mafiose». E ancora: «Denotano la strumentalizzazione del ruolo istituzionale dell’Azienda sanitaria in funzione degli interessi della criminalità organizzata, sia la violazione sistematica della normativa antimafia che viene attuata anche con il continuo ricorso al frazionamento della spesa, sia il ricorso a rinnovi taciti o proroghe di contratti precedentemente sottoscritti, con l’elusione degli obblighi di gara infondatamente motivata dall’urgenza di garantire la continuità del servizio». Dai grossi appalti a quelli meno importanti, come quello per come l’accalappiamento: era tutto, imbevuto, drogato di mafia.