“Il nostro ospedale è il porto”, diceva Gianni Nicchi al superboss Nino Rotolo. Nel box dove la mafia programmava i suoi affari quel giorno si stava mettendo a punto il ruolo che il porto di Palermo avrebbe dovuto avere: “curare” in senso metaforico, si capisce, il corpo economicamente fragile della cosca del Borgo vecchio. “È una delle più povere di Palermo e invece dovrebbe essere la più ricca”, incalzava Nicchi.
La sua ricetta era semplice. Bastava mettere le mani sulle imprese che operavano nell’area portuale, entrare nelle società, imporre il pizzo a chiunque fosse inserito nel sistema degli appalti e nel circuito degli scambi commerciali e dei collegamenti. Né più né meno di ciò che avevano fatto gli uomini del clan Fidanzati e della cosca storica di Palermo centro: negli anni d’oro del contrabbando di tabacchi e del traffico di droga avevano preso il controllo delle banchine in cui droga e sigarette si mescolavano alle merci e alle persone. E da lì la mafia aveva poi allargato il suo raggio d’azione a tutte le altre attività portuali: quelle lecite e quelle illecite.
Dal porto ai Cantieri Navali il passo è breve ma lo scenario non muta. Anche lì l’assedio della mafia è antico e strutturato. “Il cantiere navale di Palermo era casa nostra. Gestivamo tutto, dalla carpenteria ai piccoli lavori”, ha raccontato Vito Galatolo, il rampollo pentito della famiglia dell’Acquasanta.
Nicchi si trovava quindi davanti a un sistema collaudato e strutturato. E gli era bastato poco per “naschiare” (fiutare), come confidava a Rotolo, “business mostruosi”. Per questo poteva assicurare: “C’è da arricchirsi”.
Il suo “naschiamento” si poneva in continuità con il passato ma mostrava di avere il fiuto lungo. Il futuro poteva essere già coniugato al tempo presente. Proprio in quel momento una società, tra le altre, navigava con il vento in poppa. La New Port spa, che gestiva una buona parte dei servizi portuali, nel 2008 fatturava dodici milioni e mezzo di euro. E c’era tutto l’indotto in pieno e tumultuoso sviluppo con le crociere che in quel momento scaricavano a Palermo ondate di turisti e ne avrebbero portati oltre 500 mila nel 2017. Ecco un altro business “mostruoso” che al fiuto sensibile della mafia non poteva sfuggire.
La New Port non era un’azienda di Cosa nostra ma tra i suoi 157 soci 40 avevano precedenti oppure legami con personaggi di mafia. Per questo il management avrebbe avviato un’operazione di restyling con la creazione di altre società collegate e per questo è stata prima sequestrata e poi dissequestrata dopo cinque anni di amministrazione giudiziaria.
Quanto fosse pesante l’ombra mafiosa sul porto lo aveva intuito il presidente dell’Autorità portuale Nino Bevilacqua, un ingegnere che ha messo la faccia e prestato la sua consulenza nel sistema delle grandi infrastrutture. Ricco, potente, amico di potenti ma anche accorto e certamente attento a mettere un freno all’infiltrazione della mafia nei business del porto. Prima di andarsene impose alle imprese un protocollo di legalità. Sappiamo che ai sottoscrittori non si possono concedere patenti di onestà. E quando è accaduto è stata lasciata nell’ombra l’altra faccia dell’antimafia da parata. Ma almeno vengono tracciati itinerari di correttezza e anche un protocollo può funzionare come deterrente quando dalle parole si passa ai fatti.
Il successore di Bevilacqua, Pasqualino Monti, ha ricevuto un classico avvertimento, una busta con proiettile, mentre firmava in prefettura un altro protocollo per blindare cantieri per 340 milioni (fondi europei) distribuiti fra Palermo, Termini Imerese, Trapani e Porto Empedocle.
La mafia si preparava, e non è detto che si sia fatta da parte, a mettere le mani su appalti, incarichi e convenzioni. Nicchi aveva intuito bene che il porto poteva essere un “ospedale” della mafia. Ma con questi numeri può essere assimilato a un policlinico dove sono richieste competenze specialistiche di alto profilo. Non c’è problema: anche queste sono entrate ormai da tempo nel patrimonio di Cosa Nostra.