Mancano pochi mesi ai prossimi appuntamenti elettorali e giorno dopo giorno la pancia della gente sembra essere il soggetto politico emergente, sul successo o insuccesso del quale si gioca il futuro d’Europa e delle democrazie moderne. La crisi iniziata nel 2008 è stata uno schianto; le macerie economiche, politiche ed emotive alzano polveri di sfiducia e rancore.
Mentre l’innovazione tecnologica accelera cambiamenti, per certi versi miglioramenti, nelle condizioni di vita, molti si sentono in ritardo sugli eventi e disorientati: la vita migliora ma la felicità appare sempre più lontana, se non impossibile. Crescono le patologie depressive, sintomo di una più generale e diffusa percezione di insoddisfazione ed incapacità a tener testa a tutto.
I sentimenti ostili nei confronti di chi, da sopra, ha tradito le promesse di crescita (élite, esperti, istituzioni) e di chi, da sotto, minaccia sicurezza e identità (gli stranieri, i diversi) si addensano come un grumo in quella pancia della gente cui nuove classi dirigenti si affrettano a offrire anatomia, linguaggio e legittimazione politica. La pancia che sa cosa vuole, contro la testa che non risolve mai nulla; la pancia che ha fame, contro la testa che parla e parla; la pancia che è furba, contro la testa che si fa fregare.
Del cuore non si fa menzione alcuna.
Come è possibile allora, nel contesto di una democrazia spezzata e a cuore spento, aspirare alla felicità? È pensabile una vita felice per individui sempre più scissi e precari, all’interno di città sempre più divise e in lotta, dove il dialogo tra le parti è vizio intellettuali? In che modo la felicità del singolo e quella della città interagiscono? Quali sono le radici profonde dell’infelicità personale e sociale? Domande antiche, eppure attualissime ed urgenti. Pietro Del Soldà – filosofo, autore e conduttore di Tutta la città ne parla (Rai Radio3) – scrive un libro importante e raffinato, nel quale il pensiero di Socrate, vero educatore, ci aiuta a cogliere, ieri come oggi, il nesso indissolubile tra la felicità dell’io e quella del noi. Non solo di cose d’amore: noi Socrate e la ricerca della felicità (Marsilio, 2018), ci mette in compagnia di Socrate nel suo girovagare di strada in strada, di casa in casa, di dialogo in dialogo.
Incontriamo così personaggi nei quali ci riconosciamo, o che potrebbero essere nostri amici e conoscenti. Il giovane Ippocrate, il ragazzo affascinato dall’individualismo conformista e competitivo professato da Protagora, un modello di felicità a portata di mano e buona per tutti, per la quale non è richiesta la fatica del coinvolgimento profondo di sé, del mettersi in gioco nel segno della propria differenza personale.
Incontriamo Alcibiade, giovane politico bellissimo e ambizioso rappresentante di un’idea di felicità che coincide con il mito del potere e del comando. «Conosci te stesso», gli dirà Socrate, ma alla luce della splendida metafora dell’occhio:
solo osservando nella pupilla dell’altro il riflesso della nostra immagine, ognuno può sperare di conoscere se stesso, non certo nel rifugio separato di un’anima chiusa in sé.
Oppure Callicle, l’antifilosofo per eccellenza, così simile a chi oggi si presenta come immediato interprete dei bisogni dell’intero popolo, nella sua presunta unità omogenea e compatta, e difeso dai nemici che Clinia lo spartano bene descrive: i nemici esterni (gli stranieri), quelli interni (le élite) e quelli interiori (le debolezze, le fragilità).
Nella separazione risiede il cuore dell’infelicità, e solo Eros è in grado di indicarci la strada che tutto tiene insieme in modo inclusivo ed elastico: passione e ragione, pancia e testa, felicità e giustizia.
In nome di Eros, principio dialogico, Socrate interroga senza sosta ogni certezza, appartenenza e convenzione, educando alla capacità di stare aperti al rischio dell’incontro e della relazione con altri. L’Eros socratico è un amore profondamento politico: all’opposto di qualsiasi tentazione a separare l’io dal noi e il noi dal loro (con confini, appartenenze, intimità) sfida ad immergerci nella relazione, a rifletterci nella pupilla dell’altro con tutto ciò che siamo.
La società è un tessuto fatto da infinte trame e nella cura di questo tessuto di differenze, risiede il più antico e profondo antidoto all’infelicità del singolo e della città: si tratta di incamminarsi (“senza calzari”) sulla strada di una scienza che «non impone alcunché, che non è fatta di asserzioni sempre valide, di idee astratte, di principi incrollabili e uguali per tutti: la scienza qui è intesa in un altro modo, come la capacità di stare dentro ogni singola situazione cogliendone la particolarità e di scorgere i tempi e i modi giusti, il tono adeguato per attingere alle fonti del piacere e del dolore». Un po’ diversa dalla risposte facili e divisive della “pancia della gente”.