Lo stupro usato come arma di guerra è tra i crimini più abietti e meno perseguibili perché spesso non viene denunciato. Anche per questo il doppio Nobel per la Pace a Denis Mukwege, ginecologo congolese che cura le vittime di violenze sessuali nella Repubblica Democratica del Congo e a Nadia Murad, attivista yazida per i diritti umani e scampata alla schiavitù sessuale a cui l’aveva costretta lo Stato Islamico in Iraq, assume una valenza ancora maggiore.
Chi scrive ha raccolto le testimonianze delle donne del Darfur, regione del Sudan devastata da un conflitto civile in corso dal 2003. Lo sguardo delle vittime di stupro di guerra non lo dimentichi. È velato, triste, spento. E gli operatori coraggiosi che cercavano di aiutarle come Mukwege non sempre riescono a curare le ferite dell’anima.
‘L’uomo che ripara le donne’, appellativo che il neo Premio Nobel si è visto riconosciuto dalla scrittrice Colette Braeckman che ne ha raccontato la storia in un libro pubblicato nel 2012, ha soccorso migliaia di vittime di stupro nell’ospedale Panzi a Bukavu, in Sud-Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo.
Mukwege in questi anni non solo ha ricostruito gli organi riproduttivi lacerati delle donne brutalmente violentate ma le ha supportate psicologicamente. La sua battaglia contro lo stupro come “arma di guerra che disgrega le società, come ricorda sempre nei suoi interventi, gli era già valsa nel 2014 la segnalazione all’Accademoa svedese che però quell’anno premiò Malala. Gli fu invece assegnato, lo stesso anno, il prestigioso Premio Sakharov del Parlamento europeo. Il Nobel è dunque una conferma del riconoscimento del suo immenso impegno. Un premio importante a un uomo straordinario che ci auguriamo accenda un faro sul Congo, si trasformi in un invito a conoscere ciò che tante donne subiscono mell’indifferenza di chi governa e a lottare perché terminino gli stupri e i massacri di una guerra dimenticata e sottaciuta per via degli interessi commerciali legati al coltan e ai minerali clandestini.
Se Mukwege è un attivista e un medico dalla straordinaria umanità, Nadia Murad, a soli 25 anni è un vero e proprio simbolo di rivalsa e di rinascita: è sopravvissuta alle peggiori violenze e traversie. Il Nobel le è stato riconosciuto per il percorso di testimoniana del martirio subito dal suo popolo, gli yazidi dell’Iraq, e soprattutto dalle donne. Originaria del villaggio di Kosho, vicino la provincia di Sinjar, una zona di confine iracheno con la Siria, nel 2014 fu rapita dallo Stato islamico che in poche ore uccise centinaia di uomini, catturò i bambini per farne soldati e migliaia di donne per trasformarle in schiave sessuali. Ancora oggi Nadia Murad, come la sua amica Lamia Haji Bashar con la quale ha ottenuto nel 2016 il Premio Sakharov, sostiene che 3miila yazide, date per disperse, siano tutt’ora prigioniere dei loro carnefici.
Murad è stata data in “moglie” a uno jihadista che la umiliava e picchiava a sangue.
Nonostante la paura ha deciso di resistere agli stupri e alla violenza ed è fuggita, anche grazie all’aiuto di una famiglia musulmana di Mosul. Con falsi documenti d’identità si è rifugiata nel Kurdistan iracheno, ad alcune decine di km a est di Mosul, dove si è riunita a gruppi di altri profughi in un campo. Dopo aver appreso della morte di sei dei suoi fratelli e della mdre, si è messa in contatto con un’organizzaizone di aiuto agli yazidi, grazie alla quale è riuscita a contattare la sorella in Germania. Lì, dove vive ancora oggi, si occupa di diritti umani, aiuta gli yazidi in difficoltà ed è diventata portavoce del suo popolo di cui ricorda con coraggio e passione le sofferenze ma anche la forza di sopravvivere ad esse e ricominciare.