Da principio era un territorio impervio, innevato, montuoso (dispiegato in vallate espanse sino al mozzafiato), appendice dell’impero persiano- prima- e di quello indiano dinastia Maurya (sino al terzo sec. A.C). Dopo alterne vicende di sultanati, islamizzazioni, mongoliche ribalderie di etnie usbeche e hazara, tocco la decadenza diventando “oggetto” di espansionismo e trucido esotismo da parte della Gran Bretagna e della Russia: nell’incessante andirivieni di sceicchi e sovranelli di paglia (con generosi, falliti tentativi di farsi stato repubblicano) allocati, come prassi impone, al prezzolato servizio dei colonizzatori di turno. Dicono che la Storia copia se stessa, in ogni epoca e sotto ogni latitudine- e ribellarsi è vanagloria….Sarà…(anzi no)
Didattico, divulgativo, a tratti necessariamente “pedagogico”(nella sua accezione non pedante) “Afghanistan” è, dal punto di vista storiografico, letterario, poi drammaturgico uno spettacolo chiarificante, indagativo, dialetticamente privo di sentenziosità e risposte univoche alle tragedie della suddetta Storia (‘devolute’ in microstorie, immani tribolazioni per la sopravvivenza: denominatore comune dell’umano transito terreno). Esentato peraltro da quei toni epici, evocativi, pomposamente veristi attraverso i quali “l’immane sceneggiatura di ciò che avvenne” in quell’aria del Medio Oriente dal metà ottocento in poi, fra dinamiche di potere e annegamento metaforico (e non) della memoria collettiva, smette di incutere soggezione o pietà umana, trasformandosi in decorosa “cronaca” del plausibile, diramata dall’ “impossibilità” di farsi o formarsi “unità collettiva”, coscienza comune e solidale.
Senza le risorgenti retoriche del nazionalismo e dei sovranismi elevati (per mistificazione e diffusa ‘ignoranza’ del passato recente) a categorie dello spirito, in fase di degenerazione e degrado verso nuove, inedite forme di fascismo telematico e resistenze della dignità democratica ‘sciolte nell’acido’ della vietata disidenza. “ Nella storia dell’umanità ci sono conflitti espliciti, chiari, dove è facile comprendere chi è contro chi e per quali ragioni. Ce ne sono altri, invece, che intrecciano i fili della cronaca e altri all’apparenza inestricabili, persino metafisici”- affermano i due registi.
Mentre le necessità dei popoli e gli interessi politico-economici (loro connessi) rendono provvisoria (più che difficile) l’ analisi geopolitica che resista alla prova dei “diversi punti di vista”, delle eterogenee prospettive spesso ‘seguaci’ di una determinata ‘certezza’ o antropologia culturale . Poco (o tanto) da arrovellarsi: “L’Afghanistan è certamente non perscrutabile, soprattutto per noi occidentali” . Luogo impervio e “misterioso”non solo in misure chilometriche, ma per un itinerario storico “unico e proprio” in cui passato, presente ed enigmatico futuro (se futuro vi sarà..) sono risultanza, convergenza, divergenza di tante diverse ingerenze “difficili da snodare e racchiudere in uno sguardo d’insieme”.
Può, il teatro teatrale, aiutarci a entrare meglio dentro una realtà così incandescente, controversa, in febbrile e ferale evoluzione? Probabilmente l’intero spettacolo di Bruni e De Capitani è la riuscita indagine\tentatvo (tormentato ma a suo modo scabro, ‘diretto’, recitato senza contorsioni mentali) t di dare risposte razionali, emozionali, caratteriali a qualcosa che, in sé, ha ben poco di univoco ed omogeneo
Di scena quindi, all’ Argentina di Roma, le prime due parti del progetto Afghanistan di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani: Il grande gioco e Enduring freedom: concepite e trasposte come affresco storico ovviamente dibattuto sul rapporto tra l’Occidente e quella parte di Medio-Oriente che ha amaramente “ospitato” l’alternarsi di speranza e orrore, di insurrezione e repressione. Senza, tuttavia, che il primato della rassegnazione, dello status quo (molto caro alle nuove potenze finanziarie, militari, democratico -illiberali) offra la sponda nemmeno ad una passeggera requie o momentaneo armistizio con la “necessità impellente” di capire per agire. Od ogni livello sociopolitico e ciscuno con le proprie competenze.
Come si sa, il progetto nasce da una drammaturgia divisa in 13 stazioni nata per iniziativa del Tricycle Theatre di Londra, che ha commissionato i testi ad altrettanti autori anglosassoni.
La storia dell’Afghanistan, quindi, narrata (da autori anglofoni) dal 1842 in poi, attraverso la sua evoluzione\involuzione- quindi il lacerato transitare “attraverso i fondamentalismi, ingerenze anche dimenticate e relative guerre” che, la voluta mistificazione degli opposti interessi (specie americani) rende confusionali e persino privi di una propria ragion d’essere.
Importante: «Afghanistan è metafora di tutti gli errori occidentali commessi nell’intera Asia” -ribadiscono i registi Ferdinando Bruni e Elio De Capitani . Qualcosa che, mediante i suoi tableaux di vita vissuta, squarci di vita e resistenza suddivisa per rapidi capitoli “ci riguarda da vicino”. Aiutandoci a capire come e perché “quel che accade oggi…accade sempre” è dramma efferato, carnale, spesso superiore all’immaginazione della “crudeltà premeditata”- che travolge come fiume in piena rifugiati, terrorismo e ‘utili idioti’ della politica internazionale.
Un elogio a parte per l’ambientazione dei capitoli esplicativi, dei documenti storiografici assurti a drammaturgia . In uno spazio (disegnato da Carlo Sala) quale luogo di un paesaggio tutto fondali dipinti e poi animati tramite diapositive, serrati dialoghi, inediti filmati d’epoca (a cura di Francesco Frongia). “Luoghi di passaggio” popolati da nobilastri, soldati semplici, spie, aristocratici e delatori (con il riscatto di due personaggi in fuga: lo sfortunato re riformatore Ammamullah Kan, e la moglie Soraya, che ripararono in Italia) trapunti su una carta geografica che fa da fondo scena e determina la scansione dei tanti velari sui quali verranno incessantemente proiettati persona e paesaggi che “mutano a vista” i luoghi dell’inganno e del dolore senza cadere nella presunzione del pedante rendiconto minimalista.
Ps. Unico limite (provvisorio?) della pur rigoroso allestimento, comunque in ‘fieri’ quindi perfettibile e integrabile di nuovi apporti, è fermare il proprio orologio alla fine del secolo scorso: probabilmente perché i testi forniti dalla ‘matrice’ del Tricycle Theatre a Bruni e De Capitani non andavano oltre.
Resta così un pò vago ciò che scottante si snoda nell’Afghanistan del nuovo millennio: dal movimento Al-Qāʿida (islamista sunnita paramilitare terroristico , fautore di ideali riconducibili al fondamentalismo islamico più oltranzista e militarizzato). Sino alla svolta epocale dell’attacco alle Torri Gemelle, con relative controverse imprese dei fratelli munāfiqūn definiti sommariamente kufr (infedeli).
Altra lacuna: l’assenza (cronologicamente prematura?) del saudita Osāma bin Lāden – almeno come accenno, presagio o avvisaglia nelle sue adolescenziali “visite “ alla dinastia dei Bush. Prodromi infallibili di un Afghanistan che ormai ha un posto d’onore nel comune viaggio “all’ inizio della notte”. Tutt’ora senza esiti…(e a nuove elezioni in corso, fra brogli, congiure, intimidazioni, minacce- da Kabul a tutto il Paese)
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AFGHANISTAN- Il grande goco
di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys,
Joy Wilkinson, Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace
traduzione Lucio De Capitani
regia Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice,
Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana
scene e costumi Carlo Sala – video Francesco Frongia – luci Nando Frigerio – suono Giuseppe Marzoli
Produzione Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Napoli Teatro Festival, con il sostegno di Fondazione Caripl e Tricycle Theatre di Londra