Con la morte di Monsterrat Caballé il mondo della lirica ha perduto uno dei più grandi soprani del Novecento, anche se per i più la sua fama mondiale era legata a quel celebre disco, Barcellona, inciso molti anni fa con Freddie Mercury, il compianto front man della rock band inglese dei Queen.
Per capire l’importanza storica di questa straordinaria artista, che non si risolveva certo, come pure ho letto da più parti, nella sola bellezza del timbro vocale, occorre ricordare che la Caballé ha costituito nella storia dell’opera un caso assolutamente unico.
La Caballé infatti, ottenne dall’oggi al domani quel clamoroso successo internazionale che le avrebbe cambiato la carriera e la vita, a 32 anni d’età, e quindi non più giovanissima e dopo quasi 10 anni di oscura carriera, non già, come talvolta accaduto, dopo una trionfale recita in un Teatro di “grido” di un’opera di repertorio, tipo Traviata o Bohème, bensì grazie ad un’esecuzione, e per di più in forma di concerto, di Lucrezia Borgia di Donizetti.
Un’opera a quei tempi, era il 1965, del tutto sconosciuta e “minore” di un autore, a sua volta a quei tempi, abbastanza misconosciuto, eccezion fatta che per due o tre opere entrate nel repertorio, e che la Caballé non solo affrontava per la prima volta, chiamata come sostituta di altra più celebre artista grazie alla “benedetta” intuizione del grande tenore Giuseppe Di Stefano, che l’anno prima aveva cantato con lei in una Manon di Massenet a Città del Messico, ma che per lei rappresentava il debutto assoluto nel cosiddetto “belcanto” italiano.
Eppure, dopo quella magica e irripetibile serata alla Carnegie Hall del 12 aprile, il prestigioso Times titolava la successiva recensione con “Callas più Tebaldi, uguale Caballé”, la RCA le fece firmare seduta stante un contratto discografico e il noto Rudolf Bing, lo storico sovrintendente del Metropolitan, celebre per il rigore della programmazione, apprestò appositamente per lei una speciale recita di Faust di Gounod a dicembre per consentirle di esibirsi nella storica sede di Times Square prima del trasferimento nella nuova (e attuale) struttura sull’Upper West Park.
E’ evidente quindi che quella sera tutti percepirono di avere di fronte non solo una grande cantante, all’epoca non mancavano bravissimi soprani e bellissime voci, ma uno di quei pochi artisti capaci non solo di eseguire alla perfezione uno spartito, ma anche di valorizzare, con il proprio stile del tutto personale, anche i lavori meno nobili dei grandi maestri del passato.
Si tratta della capacità di lasciare quella che potremmo definire, e vale per tutti i campi dell’arte, “la firma”, ossia di quel talento del tutto peculiare che distingue il grandissimo artista da quello semplicemente bravo o anche solo bravissimo.
Dieci anni dopo, quando ormai era diventata il più famoso e ricercato soprano del momento, la Caballé si esibirà al Teatro San Carlo di Napoli per presentare in prima mondiale (moderna) al pubblico partenopeo che già aveva avuto modo di apprezzarla in due cavalli di battaglia come Trovatore e Norma, un’altra opera minore del musicista bergamasco, ossia Gemma di Vergy, scritta nel 1834 da Donizetti per il famoso soprano Giuseppina Ronzi.
Quella sera di dicembre del 1975 i presenti in sala in preda al delirio imposero, a forza di urla e boati, l’esecuzione del bis del quartetto con coro “fuggì l’ira dal mio petto” della scena IX del 1° atto.
Ora, è certamente capitato che in serate particolarmente elettrizzanti anche in un serioso teatro d’opera venga concesso un bis del “Va Pensiero” di Nabucco o del “Nessun dorma” di Turandot, tanto per citare due casi accaduti, ma assistere a scene di esaltazione collettiva per il quartetto della Gemma di Vergy credo rappresenti un qualcosa di assolutamente unico e storico.
Ma è proprio qui che risiede la suprema grandezza dell’artista, nel saper scatenare entusiasmi da stadio non con la rinomata romanza che tutti bene o male almeno una volta nella vita hanno sentito, ma con il quartetto della Gemma di Vergy.
Come hanno insegnato le poche e vere grandi del novecento, Maria Callas in primis, Montserrat Caballé, che una volta diventata famosa ben avrebbe potuto limitarsi ad inebriare con i propri “pianissimi” le opere più popolari per il pubblico di tutto il mondo, ha dedicato gran parte del proprio studio al recupero delle opere meno note.
Dopo Lucrezia ci saranno infatti le donizettiane Roberto Devereux, Maria Stuarda, Caterina Cornaro e Parisina d’Este, mentre per quanto riguarda Bellini, prima di pervenire alla sua incredibile Norma, che negli anni settanta diventerà la terza di riferimento dopo quelle che parevano irraggiungibili di Callas e Sutherland, ci furono Il Pirata e La Straniera, senza dimenticare che quando ancora il festival di Pesaro era al di la da venire, fu lei a proporre a Torino nel 1970 una stupefacente Donna del lago di Rossini, autore del quale aveva pubblicato per la RCA uno spettacolare recital di quelle che ai tempi erano ancora, come diceva il titolo, “Rarità”.
Ma questo non avvenne solo con gli autori del belcanto, perché Montserrat Caballé si dedicò anche alla scoperta del cosiddetto Verdi “minore”, e anche qui non solo con lo straordinario disco RCA di “Rarità” diretto da Guadagno, ma anche con le esibizioni di Ernani, Luisa Miller, Vespri siciliani e Aroldo e le ancora oggi insuperate incisioni di Giovanna d’Arco, Masnadieri e Corsaro.
Poi è chiaro che una volta diventata “la Caballé” si esibirà anche nel grande repertorio del bussetano, firmando alcune recite memorabili di Traviata, Trovatore, Ballo in maschera, Don Carlo, Forza del destino, Aida e Otello, ma la sua grandezza assoluta, lo ripeto, stava proprio nel saper rendere superlative pagine meno ispirate, e valga per tutte quel sublime duetto “Qual mare, qual terra” de I Masnadieri, dove insieme a Carlo Bergonzi firma una delle più straordinarie pagine della storia del disco.
Restando al repertorio italiano la Caballé è stata l’unica cantante della storia capace di interpretare, seppur in due casi solo in disco, entrambi i ruoli femminili di tre opere tra loro molto diverse per stile e tessitura, come Norma di Bellini, Mefistofele di Boito e Turandot di Puccini, e di incidere sia il ruolo di Nedda da I Pagliacci di Leoncavallo che quello di Santuzza da Cavalleria Rusticana di Mascagni.
Occorre anche ricordare come i tanti anni iniziali di “gavetta” tra Basilea e Brema le avessero consentito di impadronirsi di un repertorio smisurato in diverse lingue che in seguito le permetterà di affrontare moltissime opere tedesche e francesi di autori che ben si adattavano al suo canto, e penso al suo incomparabile Strauss o a Massenet.
Quanto all’accusa, da alcune parti mossale, di assecondare nella seconda parte della carriera una certa impreparazione musicale celata da quel suo incredibile carisma che si esaltava persino nei solitamente compassati concerti con pianoforte, è bene ricordare che quando si trattò di eseguire la Messa da Requiem di Verdi, ossia uno dei più complessi capolavori musicali dell’ottocento, i più grandi direttori del novecento scelsero proprio Montserrat Caballé, e basta scorrere i nomi di John Barbirolli, Herbert Von Karajan, Zubin Metha, Riccardo Muti e Claudio Abbado.
In conclusione, si è trattato di un’artista che in 60 anni di carriera si è cimentata in oltre 90 autori diversi dal 1700 ai giorni nostri, nei più grandi teatri del mondo e sotto la direzione dei maggiori direttori d’orchestra del novecento, e con esiti complessivi privi di paragone alcuno per rapporto tra qualità e quantità.
Per gli appassionati era stata soprannominata “la Superba” sol perché la Callas e la Sutherland si erano già accaparrate le definizioni di “Divina” e “Stupenda”, e non certo sol perché era una donna simpatica con una bella voce.
Ma perché quando Montserrat Caballé cantava, qualsiasi opera si trattasse, fosse Giulio Cesare di Haendel o Agnese di Hoenstaufen di Spontini, sapeva “incantare” l’ascoltatore di qualsiasi ordine e grado esattamente quanto la Callas lo sapeva “stregare” e la Sutherland “strabiliare”.
Ecco chi è stata Monsterrat Caballé, l’ultimo soprano assoluto del novecento, e al di là del celebre disco con Freddie Mercury, che peraltro, e anche questo ne conferma la assoluta grandezza, è pure dannatamente bello, e ve lo dice uno che solitamente non ama troppo le contaminazioni di generi.