Con circa 5 milioni di residenti stranieri (5.144.000 a fine 2017, secondo l’Istat) – si legge nel Dossier statistico immigrazione 2018 Idos-Confronti – dalla scorsa settimana disponibile per addetti ai lavori e non – l’Italia viene dopo la Germania, che ne conta 9,2 milioni, e il Regno Unito, con 6,1 milioni, mentre supera di poco la Francia (4,6 milioni). Dopo il Paese transalpino, c’è la Spagna (4,4).
Anche l’incidenza sulla popolazione complessiva, pari all’8,5% (dato Istat), è più bassa di quella di Germania (11,2%), Regno Unito (9,2%) e diversi altri Paesi più piccoli dell’Unione europea, dove i valori superano anche in maniera consistente il 10% (Cipro 16,4%, Austria 15,2%, Belgio 11,9% e Irlanda 11,8%). L’incidenza più alta si registra nel Lussemburgo, dove gli stranieri sono quasi la metà di tutti i residenti (47,6%).
Poi, con oltre 2 milioni e 400mila occupati, gli stranieri costituiscono oltre un decimo di tutti i lavoratori in Italia;
127 miliardi di valore aggiunto. Un decimo del Pil italiano, ossia dell’intera ricchezza prodotta nel paese; con 5 miliardi di rimesse inviate nei loro paesi d’origine contribuiscono al loro sviluppo economico più di quanto non faccia lo Stato italiano con i fondi per la cooperazione internazionale (per cui ad aiutarli a casa loro si può dire che già ci pensano in buona parte loro stessi); con quanto assicurano in entrata nelle casse dello Stato, tra tasse, contributi previdenziali, spese di rinnovo dei permessi di soggiorno e di pratiche per la cittadinanza e altre varie voci di costo, ripagano abbondantemente quanto lo Stato spende per loro in servizi e prestazioni assistenziali, con un avanzo netto a favore dell’erario nazionale che oscilla tra un minimo di 1 miliardo e 700 milioni di euro e un massimo di 3 miliardi; inoltre, essendo mediamente molto più giovani degli italiani (i minorenni sono oltre un quinto e gli ultra 65enni appena 1 ogni 25, mentre tra gli italiani gli ultra 65enni sono ormai 1 su 4 e i minorenni appena un sesto), contribuiscono, sebbene in misura non così consistente come nel passato, al ricambio delle leve produttive e alla previdenza verso gli italiani (con quanto versano all’Inps, l’istituto di previdenza paga circa 650.000 pensioni di italiani); ed essendo di conseguenza anche più fecondi (con 68.000 nuovi nati coprono un settimo di tutte le nascite avvenute in Italia nel 2017, con un tasso di natalità che, sebbene in calo, resta comunque superiore a quello degli italiani) garantiscono anche in tal caso sempre meno rispetto al passato la tenuta demografica del paese. Senza contare che si adattano a fare lavori che, ancora in tempo di crisi, gli italiani, non solo non vogliono più fare, ma a volte neppure sanno fare, sebbene ve ne sia un bisogno strutturale (cura agli anziani e assistenza familiare, lavoro nei campi, manovalanza nell’edilizia, lavori di facchinaggio, pulizie negli uffici, lavori di fatica nei ristoranti e negli alberghi, ecc.). A ricordare questi dati è stato Luca Di Sciullo, presidente di Idos in occasione della presentazione nazionale tenutasi a Roma.
Dati contenuti nel Dossier (sostenuto grazie ai fondi Otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi) dove si sottolinea anche che quest’ottica meramente funzionalistica «per cui gli immigrati dovrebbero essere accolti nella misura in cui e fin tanto che ci servono», in fondo finisce per giustificare un mercato del lavoro rigidamente segmentato e stratificato.
Una pubblicazione «preziosa e fondamentale, della quale abbiamo evidenziato la valenza statistica e politica – rileva Gianluca Barbanotti, segretario esecutivo della Diaconia valdese –. Con questo prezioso strumento – prosegue – s’intende riportare nello spazio pubblico, attraverso le analisi e i dati emersi, un ragionamento onesto e consapevole».
Anche perché l’Italia è un paese d immigrazione da 45 anni ma ancora il web e una certa comunicazione mainstream, «utilizzano concetti, parole e cliché, che sono rimasti invariati da almeno 30 anni. Si parla d’invasione, di clandestini, di extracomunitari, di ‘negri’; con tutto un corollario di dogmi nazional-popolari, come ad esempio “gli stranieri ci rubano il lavoro, evadono le tasse, aumentano la delinquenza, importano malattie, erodono le risorse delle Stato, ci passano avanti nell’assegnazione dei benefici assistenziali”. Parole d’odio che, anche attraverso la buona informazione di Articolo 21, vengono contrastate a caro prezzo come testimonia la nuova aggressione via web con offese e minacce alla collega Antonella Napoli, che aveva analizzato e commentato nei giorni scorsi i dati di questo dossier.
Preconcetti che «il Dossier, insieme a altri enti di ricerca, da anni e sistematicamente decostruiscono», rileva il direttore del Centro studi Confronti, Claudio Paravati.
L’unica soluzione elle migrazioni potrebbe e dovrebbe essere l’integrazione: via «che non sembra essere presa seriamente in considerazione nell’agenda politica del governo italiano e che rischia di perdere risorse dedicate anche nell’ambito dell’Unione Europea», per un atteggiamento ottuso «che sembra non voler vedere, o non voler accettare, che l’Italia è un paese pluralista, multiculturale e multi-religioso», ricorda il dossier.
Basti pensare – come emerge – che di 5.144.000 residenti stranieri, che sono appunto il sedimentato di 45 anni di immigrazione in Italia, 1 milione e 300mila, dunque più di un quarto, è nato in Italia e costituisce le cosiddette seconde generazioni, dunque straniero da un punto di vista puramente legale.
Attenzione, dunque «a chiamare stranieri anche quel milione e 400mila di cittadini comunitari, che a rigore hanno la cittadinanza europea, come gli italiani».
Un altro milione e mezzo è diventato italiano per acquisizione. Di quel milione e 300mila di seconde generazioni oltre mezzo milione siede sui banchi delle scuole italiane, rappresentando oltre il 60% degli 826.000 scolari stranieri, i quali rappresentano poco meno di un decimo di tutti gli alunni iscritti.
Questo vuol dire, «che tre studenti stranieri su cinque sono nati in Italia senza essere ancora italiani: una maggioranza schiacciante e crescente di anno in anno».
Gran parte di questi giovani (di seconda generazione) «sarebbero potuti diventare cittadini italiani se nel 2017 fosse passata la riforma della legge sulla cittadinanza».
I dati sul numero d’integrazioni raggiunte, tuttavia, sono incoraggianti e aiutano a sfatare alcune strumentalizzazioni retoriche come quella dell’invasione e a comprendere con maggiore chiarezza il tema delle migrazioni grazie ai numeri; quelli di persone che sono state accolte da altri paesi tranquillamente e senza particolari stravolgimenti. La gestione dell’immigrazione è tema complesso, ricorda ancora Paravati: «É diventata, per l’Italia e per l’Europa un problema imbarazzante per l’incapacità da parte dei vari governi di elaborare una politica ragionata, una programmazione organica e lungimirante accompagnata da un percorso d’integrazione per provare a gestire, invece di illudersi di arrestare, un fenomeno molto più ampio dei confini nazionali, un fenomeno globale, epocale e irreversibile per dimensioni, cause e prospettive».
Eppure le buone pratiche esistono, come quella nata in Italia e pilota dei «Corridoi umanitari», promossi dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola Valdese, esempi copiati in Europa.
Domani, mercoledì 31 ottobre, giungeranno all’aeroporto di Fiumicino altri 83 profughi dal Libano, in accordo con i ministeri dell’Interno e degli Esteri. Con questo gruppo di rifugiati siriani, ricorda l’Agenzia stampa Nev, saranno oltre 2.100 le persone arrivate in Italia, Francia, Belgio e Andorra, in modo legale e sicuro, dal febbraio 2016. Grazie alla generosità di tanti italiani che hanno offerto le loro case, associazioni, parrocchie, strutture diaconali, è stata favorita non solo l’accoglienza ma anche l’integrazione, a partire dall’apprendimento della lingua e dall’inserimento lavorativo. Un progetto, quello dei Corridoi, interamente autofinanziato dalle realtà associative ed ecclesiali che l’hanno promosso.