Certe ferite continuano a sanguinare impietosamente.
Anna Odell, svedese classe 1973, con “The reunion” (2013) – il suo esordio cinematografico di cui è regista interprete e sceneggiatrice – rivolge lo sguardo al suo feroce, personalissimo “grande freddo”. A vent’anni dall’ultimo anno di scuola, si ritrova infatti per una rimpatriata con la sua vecchia classe: una generazione di trentenni felici e soddisfatti. Lei, una specie di cenerentola, arrivata per ultima, sembra quasi fuori posto. Anche se adesso è un’artista affermata, conosciuta per i suoi progetti eccentrici e provocatori, a scuola era la “sfigata”, quella che rovinava tutto”.
Negli anni “spensierati” delle superiori infatti subiva gli insulti e la derisione di tutta la classe tanto da assumere un atteggiamento di auto-rifiuto. Per lei quel tempo rappresenta ancora uno strappo non più ricucibile e così nel corso della festa, in una sorta di personalissima rashomon dei ricordi, Anna rievoca e smaschera uno per uno, rammentandoli ai suoi ex compagni, i comportamenti da bulli e diventa, nell’imbarazzo di tutti, la scheggia impazzita che torna da un passato che si credeva sepolto. In quello che sembra uno psicodramma la situazione precipita: Anna diventa poco a poco sempre più aggressiva, dà in escandescenze ed è costretta dai suoi compagni a lasciare precipitosamente la festa.
E’ a questo punto che Anna Odell trasforma la realtà in finzione e la finzione in realtà: se nella prima parte del film – “Il discorso” – aveva rievocato la rimpatriata ma solo attraverso una rappresentazione filmica, è nella seconda parte – “Gli incontri” – che la regista ne svela la funzione: quello che abbiamo visto non è altro che una messinscena, ciò che sarebbe accaduto se Anna si fosse davvero presentata alla festa (che in realtà c’era stata davvero e alla quale lei non era stata invitata).
“Subito – ha dichiarato Anna Odell – si è scatenata la mia curiosità sul perché avessero deciso di escludermi. Si trattava di semplice paura dei cambiamenti del tempo? È perché in quel periodo venivo dipinta dai media svedesi come un’artista provocatoria? Che sarebbe successo se Anna Odell avesse presenziato? La mia esperienza personale è servita come base di partenza nella mia ricerca: cosa succede quando le vecchie gerarchie vengono messe a nudo e in discussione?”
Il film dunque più che spostarsi sullo scarto emotivo provocato dalla rivelazione, evita ogni coups de théatre e mette a fuoco i meccanismi comportamentali dei sui ex compagni di scuola: “visto che avete scelto di non invitarmi – dice a quei pochi che accettano di incontrarla – volevo sapere cosa volevate evitare”. La Odell racconta così un lacerazione perenne – che in parte l’ha resa quella che è – ma anche il disagio dei colpevoli davanti a quella verità incontrovertibile, a quei fatti a cui tutti loro si sottraggono meschinamente: ne sbugiarda le contraddizioni e i sensi di colpa, ne lascia emergere le finzioni e le reticenze. La stessa richiesta di incontrare tutti loro per farli assistere al film ne scatena le colpevoli reazioni: si accusano vicendevolmente di averla esclusa dalla rimpatriata, appaiono irritati o in cerca di scuse improbabili, sfuggendo ancora una volta ad una verità che non solo hanno rimosso ma che non vogliono riconoscere.
Ma “The reunion” funziona soprattutto come spia sociale: il conformismo della società di massa che impone i suoi modelli, l’indifferenza del potere nei confronti delle sue stesse ingiustizie, liquidate appellandosi alle oscure “ragion di stato”, alle necessità che oltrepassano e calpestano i diritti del singolo che di quella comunità è “titolare”. E non è certo il caso di ricordare quanto la questione dello Stato “bullo” (o di una parte di esso) sia in questo momento così scandalosamente attuale.
Cinematograficamente “The reunion” – Oscar nazionale svedese per il miglior film e miglior sceneggiatura dell’anno – è un’opera apparentemente algida, così come l’atteggiamento della regista-protagonista: ma questa distanza solo esteriore era l’unico modo di affrontare una storia senza l’inutile sovrappeso del melòs; è anzi questo distacco che consente di cogliere con grande lucidità il negativo di quella esperienza, messa in luce con implacabile precisione: l’assenza stessa di colonna sonora – se si eccettua l’allusiva canzone finale “The war is over” che accompagna un lungo piano sequenza dall’alto in cui l’unico elemento disturbante di un paesaggio razionale è proprio Anna seduta sul tetto di una casa – il film si connota per un apparente taglio documentaristico: Anna Odell non ha bisogno di esprimere giudizi ed è proprio questo non aderire emotivamente alla vicenda a costituirne le stimmate e la condizione del suo valore conoscitivo e critico.
In fondo Anna si prende la sua rivincita parziale e indiretta “intrappolando” i compagni nell’immagine creata dagli attori che li interpretano: il tempo così si cristallizza in quel tempo lontano ma dischiude uno spiraglio antagonista e liberatorio aprendo letteralmente – e il riferimento al Rashomon di Kurosawa per noi non è affatto casuale – una “porta nelle mura difensive”: il peso del passato e dei suoi errori, nonostante gravi su spalle adulte, è diventato intollerabile.