Bum, un murticeddu ogni tanto «Borrometi picca n’avi» (poco ne ha da vivere). … se sballa… se sballa… che deve succedere, picciotti …dobbiamo colpire a quello! Bum, a terra! Devi colpire a questo, bum, a terra!… Ogni tanto un murticeddu , vedi che serve! Per dare una calmata a tutti! Un murticeddu, sai, così… un murticeddu, c’è bisogno… così si darebbero una calmata tutti gli sbarbatelli, tutti mafiosi, malati di mafia! Un murticeddu…“Un morto ogni tanto” è il libro del giornalista Paolo Borrometi da oggi in libreria. E l’incipit di questo articolo rappresenta la parte del libro che mi ha fatto venire un groppo alla gola pensando a quello che la mafia stava organizzando contro il collega giornalista. Siamo nell’era della mafia sommersa, la mafia che non fa scruscio, rumore, e che però è pronta a far sentire il rumore delle sue armi. C’è una mafia che non ha deposto le armi e che sa benissimo che se torna a sparare può contare su una sorta di consenso sociale, quello che noi giornalisti abbiamo sempre incontrato, pronto a colpire le vittime, mascariandole. Spesso abbiamo sentito di morti ammazzati che la loro fine tragica se la erano andata a cercare, o ancora di vittime ammazzate per questione di fimmini, o per altro ancora, mai per essersi schierati contro i boss di Cosa nostra. A Trapani nel 1985 ascoltammo perfino la voce autorevole di un sindaco, quello della città capoluogo, Erasmo Garuccio, che dinanzi alle vittime straziate dal tritolo mafioso destinato al pm Carlo Palermo, in tv, rispondendo ad Enzo Biagi, disse che “a Trapani la mafia non esisteva” e finì per essere conosciuto come Erasmo da Trapani, con la matita di Forattini che lo disegnò con tanto di fascia tricolore al cinto e i pantaloni abbassati, con una lupara puntata proprio in quel punto preciso…dove non batte il sole perché di solito resta coperta.
Borrometi non racconta solo la sua città, Modica, la sua provincia, quella di Ragusa, e gli affari della provincia di Siracusa o i segreti dei mercati dell’ortofrutta della Sicilia Orientale, non ci racconta solo di Gela o Vittoria . Ha descritto bene la rete mafiosa nella quale la Sicilia ancora oggi viene tenuta stretta. Garantita da affari e accordi che si muovono da Trapani per arrivare in Sicilia Orientale, o dalle grande alleanze tra mafiosi da Palermo a Catania. La rete per l’appunto. Non è un racconto di storia, ma un racconto attuale, perché comune denominatore di tante cose che Paolo ha ricostruito è l’attuale super latitante Matteo Messina Denaro, 56 anni, ricercato dal 1993, originario di Castelvetrano, la città da dove, scrive Borrometi, partono usando lussuose auto i migliori commercialisti per aiutare le famiglie mafiose della Sicilia Orientale. E’ un racconto il suo che cancella la casualità di certi accadimenti: spesso rispetto ad alcuni fatti tanti giornalisti, e non solo, hanno chiosato dicendo che in Sicilia accadono le cose più strane. E invece di strano non hanno nulla, sono l’espressione di una Sicilia alla quale i boss piacciono e piacciono assai. Una Sicilia che resta innamorata della delegittimazione più meschina, un mascariamento odioso contro chi si oppone a Cosa nostra, che in Sicilia non è solo quella delle coppole e delle lupare, ma è diventata la mafia dei colletti bianchi, dell’area grigia.
Borrometi racconta benissimo il metodo mafioso di sempre, mascariare, calunniare, i suoi avversari, in vita e anche dopo averli uccisi. Perché così si mascaria la verità, si mette contro l’opinione pubblica insinuando atroci dubbi, poi, quando sei isolato, ti uccidono: la storia di chi lotta contro la mafia è piena di delegittimazioni orchestrate per mettere a tacere chi dà fastidio. Non è un virus che ha introdotto la mafia nelle nostre città, nelle nostre vite, è una rete che pretende di prenderci tutti come tanti pesci da servire sui banchi delle pescherie. Leggere il libro di Paolo Borrometi è utile a comprendere ancora di più con quale organizzazione mafiosa abbiamo a che fare, con una Cosa nostra che è diventata, impresa, holding, capace di riciclare dentro le banche, di ieri, come di oggi, immensi capitali, per immetterli nei circuiti internazionali, nelle grande finanza internazionale, capace a ripulire ingenti somme. Anche partendo dal semplice commercio dei prodotti dell’ortofrutta, l’oro rosso lo indica Paolo nel suo libro, parlando dei famosi pomodorini di Pachino, anche loro componenti della grande fortuna della nuova mafia. Un filone che porta a grandi ricchezze cominciate ad essere costruite – scrive Paolo – negli anni Settanta allorquando si aprì un periodo di immensi arricchimenti. Cosa nostra era alla ricerca di nuovi spazi di investimento e di terre dall’economia florida, che fossero pronte ad accoglierne i capitali al riparo da sguardi indiscreti…se gli spari esplodevano a Palermo, molte delle decisioni e degli investimenti di quella mafia si prendevano dalle parti della provincia babba di Ragusa. Non avviene niente per caso. Se a cominciare da quegli anni sulle strade della provincia babba ragusana cominciano a vedersi prima i Rimi di Alcamo, poi i famosi esattori Salvo di Salemi, per arrivare oggi agli uomini di Messina Denaro.
A tanti giornalisti è capitato sentirsi dire di abbassare i toni, di non affezionarsi ai racconti mafiosi, perché questi fanno danno alla terra. Già il male della Sicilia e di tanti Paesi siciliani per molti resta il giornalismo, almeno quel giornalismo che non dà tregua ai mafiosi. Denunciare, indagare, raccontare, reagire al malaffare è prendersi cura della propria terra. Voltare le spalle alla verità, nullificare la memoria invece che farne la ragione di un riscatto fa sì che siano invece solo le voci dei più forti a essere sentite. La Sicilia non ha bisogno di eroi ma solo di essere raccontata, e di una coscienza critica solida, di cittadini che non si voltino più dall’altra parte. Ecco perché rifiuto con forza il bollo di «giornalista antimafia»: non può esistere nessun giornalista antimafia, anticorruzione, anti-illegalità. Alcuni cittadini di professione fanno i giornalisti. E solo il loro dovere. Tutto qui. Sono parole che Paolo ha ripetuto e oggi ha scritto nel suo libro pienamente da condividere. Sono parole che tanti di noi cronisti della periferia siciliana opponiamo a chi magari con tanto di fascia tricolore indossata, quale primo cittadino, è venuto anche a dirci che Matteo Messina Denaro non è il primo dei problemi. In questa Sicilia resiste una politica che con i mafiosi continua a non rispettare la distanza di sicurezza, voti in cambio di favori. Certo nel libro con grande ricchezza di particolari vengono riferiti storie inedite, come quella di un super yacht partita una sera di settembre del 2013 dal porto di Trapani per approdare a Marina di Ragusa. Parecchio interessante.
L’alone di riservatezza e mistero fa pensare che su quel super yacht ad un certo punto avrebbe potuto viaggiare il grande latitante e non tanto i suoi emissari. I nomi nel libro ci sono, sono certi colletti bianchi della Castelvetrano dove frattanto la gente dice in giro che Messina Denaro non è l’assassino, lo stragista, il pericoloso boss descritto in sentenze di condanna e articoli: Vicende quantomeno singolari legano, ancora una volta, i territori orientali (quelli babbi) ai territori occidentali (quelli sperti). E’ un libro che un suo fine preciso ce l’ha e non lo nasconde:Non possiamo più restarcene nel nostro angolo a guardare i disastri che accadono attorno a noi. Dobbiamo cercare di incarnarlo, quel cambiamento. Un cambiamento culturale che riguarda anche le piccole cose, come non posteggiare nel parcheggio dei portatori di handicap, non cercare raccomandazioni. La lotta alle mafie è una lotta a oltranza, loro con la forza e le minacce, noi con la cultura e l’informazione.Il segnale lanciato al lettore è preciso: A morire di mafia non sono solo le vittime che cadono riverse per strada, i morti ammazzati, ma tutti coloro che si rassegnano a vivere nell’illegalità e nell’ingiustizia. Chi chiude gli occhi. Chi si gira dall’altra parte. Chi fa affari con i mafiosi o chiede favori ai potenti: clientelismo e compromesso sono sempre malefici, non benefici.
E infine. Non dimentichiamo Peppino Impastato, che ci ha descritto la mafia per quella che è cioè una grande montagna di merda, per cui, ogni mafioso che ne fa ovviamente parte è un pezzo di merda, grande o piccolo che sia questo pezzo , ma mai meschino come una volta arrestati ci si pretende talvolta essi così appaiano. E non dimentichiamo Mauro Rostagno che ci ha lasciato detto come ad un giornalismo silente è sempre da preferire un giornalismo che esagera. Ma Borrometi vi assicuro nel suo libro non ha esagerato. Ha raccontato. Bene.