Il film, tratto dal romanzo Transit di Anna Seghers, racconta la storia di Georg, un fuggiasco clandestino tedesco che assume l’identità di Weidel, uno scrittore morto (ma nessuno lo sa tranne lui). Marie, la moglie dello scrittore, credendolo ancora vivo, lo cerca disperatamente. I due si incontrano a Marsiglia, città di transito, dove attendono di partire per il Messico, terra di libertà.
A dispetto delle apparenze quello che c’è tra Georg e Marie non è amore ma un miscuglio di opportunismo e ossessione. Marie è un personaggio inconsistente, percepita come un fantasma prima ancora di morire. Con lei Georg sembra interpretare un copione privo di desiderio al contrario del suo rapporto con il piccolo Driss e con la madre sordomuta. Con loro infatti è autentico e sembra regredire a una purezza fanciullesca in cui diventa possibile immaginare un futuro.
Petzold decide di non rispettare il contesto storico del romanzo, scritto nel 1942, e ambienta la storia in una Marsiglia un po’ atipica, che conserva l’identità dei giorni nostri ma che sembra sospesa in un’epoca passata. Le strade e gli spazi aperti infatti sono i luoghi reali della città di oggi ma gli interni sembrano edifici degli anni ’40. Così come si vedono moderne automobili ed enormi tv al plasma, ma mai cellulari o computer e la gente usa ancora le vecchie macchine da scrivere. Ciò che rende ulteriormente inverosimile la storia è il fatto che i protagonisti stiano scappando da un’ipotetica occupazione tedesca. In un primo momento si ha l’impressione di trovarsi in una realtà distopica in cui la Germania ha vinto la Seconda Guerra mondiale, ma nulla viene spiegato e quindi per tutto il film si rimane intrappolati in una nuvola di confusione. Il meccanismo di identificazione avrebbe funzionato di più per esempio se il plot fosse stato ambientato esplicitamente ai giorni nostri e se al posto di intellettuali tedeschi i protagonisti fossero stati immigrati clandestini che sfuggono al controllo delle autorità.
Il film riesce comunque a raggiungere un certo spessore soprattutto grazie all’interpretazione di Franz Rogowski, che con il suo volto caratteristico testimonia in modo naturale cicatrici più profonde. La sua recitazione asciutta e le sue espressioni controllate lo fanno somigliare a un divo dei tempi passati.