Miyamoto Musashi, celebre spadaccino giapponese, scriveva nel suo “Libro dei cinque anelli”: “Ku’ significa ‘vuoto’; ‘ku’ è ciò che non si può conoscere. Naturalmente il vuoto è il nulla. Praticando la forma, si percepisce il vuoto. Questa è la natura di ‘ku’
Michele Santeramo ci mostra, attraverso il personaggio da lui scritto e interpretato, un vuoto denso di significati, un’azione votata al nulla con dedizione pari a quella dimostrata da un monaco zen nella meditazione. Il nullafacente è intento a passare le giornate adoperandosi per dover fare il meno possibile, cercando di ridurre all’osso le attività quotidiane e opponendosi agli stimoli del mondo esterno che lo vorrebbero operoso e attivo; così la sua vita passa fra una visita al mercato per raccattare il sostentamento di base e spostare di qualche giorno la soglia della fame, la -non- assistenza alla moglie malata (Silvia Pasello), le dispute con il fratello di lei (Francesco Puleo), con il padrone di casa ossessionato dall’insolvenza dell’inquilino (Vittorio Continelli) e con il medico rivale in amore (Tazio Torrini).
Seguendo le vicende una domanda si fa largo nello spettatore: la causa della nullafacenza del protagonista a cosa sarà dovuta?
Prima possibile risposta è la paura di affrontare il mondo, il terrore di accettare l’ineluttabilità del tempo e le perdite che questo comporta. Un comportamento che possiamo ritrovare in una “piaga sociale” moderna, quella degli Hikikomori, i reclusi in casa, per lo più giovani, che scelgono di non uscire più dalla propria stanza, sentendosi rifiutati dalla società e che quindi si recludono nelle proprie case come per rimanere in eterno protetti da un surrogato del ventre materno.
Seconda possibilità è che il nullafacente segua una sorta di ideale cinico votato alla ricerca del piacere nella semplicità e nell’autarchia, come Diogene, il filosofo che si dice vivesse in una botte. Rifiuto della morte o accettazione della vita, due possibilità antitetiche come il vuoto che nel contempo divide e unisce tutte le cose. Il nostro protagonista dichiara: “la morte è ogni volta che perdete tempo”; ci affanniamo lavorando ore e ore ogni giorno per guadagnare soldi, soldi che spenderemo per permetterci attività che ci porteranno via altro tempo. La felicità è in quello che riusciamo a guadagnare oppure è nel semplice esistere, qui e ora, in un attimo eterno in cui passato e futuro si fondono nel momento presente?
Il testo di Santeramo riuscirà a mettere in dubbio le certezze che ritenevate acquisite e a farvi porre interrogativi sul modo in cui vale la pena spendere la propria esistenza, il coinvolgimento è assicurato dalla sapiente regia di Roberto Bacci che pone i contingentati spettatori di poco più in alto rispetto alla scena posizionata di fronte alla ribalta, gli attori che attendono il proprio momento seduti subito davanti alla prima fila.
La scenografia è essenziale: un tavolo, qualche sedia, una poltrona, un bonsai; proprio il bonsai, testimone silente dei soliloqui del protagonista e simbolo della dottrina zen, ci ricorda che senza le dovute cure e sottoposto ai maltrattamenti di uno stile di vita frenetico, perderebbe la sua forma composta e quindi, la sua essenza.
Un atto unico di un’ora e dieci minuti che vi farà perdere la cognizione del tempo: sospinti dalle battute, presi dalla storia e travolti dalla forza del dramma vi sembrerà che sia durato il tempo di un sospiro e al contempo una vita, quella che ancora non siete riusciti a rivendicare. Ma niente paura, c’è tutto il tempo che abbiamo, per usare le parole di Santeramo.