Sabato 6 ottobre insieme ai fratelli francescani sarà presentato il «Manifesto di Assisi» aggiornato e ampliato; un decalogo sulle buone pratiche della comunicazione per contrastare la violenza diffusa attraverso la carta stampata, le trasmissioni televisive e in particolar modo attraverso i social network. L’evento si terrà presso la Sala stampa del Sacro Convento di Assisi e si articolerà con una giornata intitolata «Le parole non sono pietre, il Manifesto di Assisi».
Un Manifesto necessario, utile, e che potrebbe diventare, sarebbe l’auspicio, una vera e propria Carta deontologica: la «Carta d’Assisi»? Nella quale sarebbe però necessario, così come nel decalogo del Manifesto, un accenno al tema del pluralismo religioso. Perché?
Malgrado i grandi passi in avanti fatti in materia di rapporti ad esempio con l’Islam italiano (grazie alla firma avvenuta il primo febbraio 2017 al Viminale del «Patto nazionale per un Islam italiano» tra il Ministero dell’Interno e le principali associazioni dei musulmani) e le altre confessioni religiose (grazie alla stipulazione di Intese – rimangono in attesa i Testimoni di Geova), nella stampa italiana e con una base dati piuttosto ampia – come ricorda l’ultimo Rapporto dell’Associazione Carta di Roma Notizie da paura – le testate nazionali e locali (da gennaio a ottobre 2017 con circa 14.000 titoli) rivelano numerosi titoli/articoli critici; di questi, 146 titoli delle testate Libero, Il Giornale e La Verità, discriminatori e che possono essere definiti di dangerous speech, perché stabiliscono un nesso, una generalizzazione, tra la pertinenza etnica/«razziale»/religiosa e la messa in atto di un comportamento negativo o pericoloso, sia esso criminale, terroristico o di minaccia all’ordine sociale.
Di questi 146 titoli, il 20% sono associabili al fattore religioso: «L’Islam è pronto a sterminarci con mini armi atomiche e chimiche»; «Vi racconto come si vive con la moschea in cortile»; «Più musulmani uguale attentati»; «Torino Capitale della sottomissione all’Islam»; «I terroristi dell’Isis arriveranno con i barconi».
Il ruolo dell’informazione dunque, oggi si colloca in un «contesto» di grandi mutamenti geopolitici e, in Italia, in una situazione di grave analfabetismo religioso. È importante far conoscere il pluralismo religioso e il suo portato culturale, sensibilizzare l’opinione pubblica e la nostra categoria professionale in materia, proprio perché c’è ancora molta confusione e scarsa conoscenza.
Recentemente due giornali hanno titolato in prima pagina epiteti razzisti e forieri d’intolleranza: «Bastardi islamici» rincarando la dose «Fermiamo gli immigrati islamici» perché dopo «la miseria, ci portano» anche «le malattie».
Come giornalisti e operatori dell’informazione dovremmo porci dei seri interrogativi su come operiamo deontologicamente e quali effetti il nostro modo di divulgare notizie, fatti, stia condizionando la società in cui viviamo. Atteggiamenti scorretti che non riguardano solo la carta stampata. Nei Tg di prima serata, l’anno passato, la pertinenza religiosa «Islam», era presente nel 4% dei servizi e in 6 servizi sui 10; l’accezione, però, è stata spesso negativa perché associata o alla minaccia terroristica o alle difficoltà di integrazione. Molti servizi, ad esempio, raccontavano di violenze domestiche su istigazione religiosa.
Con l’alta percentuale di femminicidi in Italia e di matrice quasi tutta italiana pensate cosa potrebbe scatenare un titolo quale: «Cattolico (cambiate con: cristiano, protestante, ebreo, ortodosso) italiano uccide barbaramente la moglie marocchina perché non voleva andare a messa (al culto, al rito, alla cerimonia) con lui»; titoli che invece e con estrema facilità sono riservati ad altre fedi e o religioni, soprattutto l’Islam. Recente è il titolo de il Giornale.it, «Devi dormire come dice l’Islam: violenze e minacce alla moglie italiana». Se un uomo è violento con la moglie, con la propria compagna o con i propri figli è un delinquente e basta, qualsiasi sia la sua appartenenza religiosa e origine, così come dev’essere ininfluente quella della donna.
L’analfabetismo religioso in Italia, infatti, è del tutto evidente e lo evidenzia bene un’analisi condotta dal professor Alberto Melloni resa nota qualche tempo fa e che riporta dati inquietanti: «un italiano su 4, dunque il 26,4% è convinto che la Bibbia sia stata scritta da Mosè, mentre il 20,4% ritiene che l’autore sia stato Gesù. Il 51,2% non sa chi abbia dettato i dieci comandamenti».
Un’ignoranza specifica che s’intreccia con una più ampia, quella che porta a non conoscere la «religione» di Primo Levi (nel 39% dei casi) o a non aver mai sentito parlare di Martin Lutero (si va dal 49,5% del Nord-Est, al 66, 3% del Sud Italia). Eppure soltanto il 15% degli italiani si dichiara: non credente; mentre il 55% è interessato all’insegnamento di altre religioni e il 63,2 dice di essere favorevole all’apertura di moschee e altri luoghi di culto.
La quasi totalità della popolazione italiana che «si dice cattolica», percepisce questa posizione religiosa come una sorta di «religione civile».
Anche in televisione sono presenti poche trasmissioni religiose, altre dalla cattolica. Due «finestre» sono inserite nel palinsesto Rai, le rubriche «Protestantesimo» e «Sorgente di vita»; la prima prodotta per la Rai dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e la seconda dall’Unione delle comunità ebraiche in Italia (Ucei), e sono trasmesse alle due di notte e in replica la mattina seguente, in un orario migliore. Molte, invece, sono le rubriche cattoliche e le «ospitate» di rappresentanti cattolici all’interno di telegiornali, o trasmissioni d’intrattenimento/informazione e di talk show.
Le altre fedi, religioni, movimenti spirituali, laici, gli agnostici e i non credenti, non vengono quasi mai rappresentati dai media generalisti; solo occasionalmente «trovano spazio» in programmi televisivi. E quando ciò avviene, è per motivi legati alla cronaca nera o giudiziaria, oppure se qualcuno ha deciso di realizzare servizi di «colore». Un’analisi condotta dalla rivista Critica liberale fornisce ogni anno numeri e percentuali allarmanti che indicano quanto il mosaico delle fedi presente in Italia sia spesso dimenticato, e dunque poco rappresentato. A «fare le spese» di questa «disattenzione mediatica» sono innanzitutto le chiese protestanti – evangeliche e ortodosse.
Più visibili le comunità islamiche (1milione e ottocentomila persone in Italia) narrate con una chiave di lettura spesso «alterata», quella terroristica; un’altra popolazione finita nella «rete» della disinformazione è quella romanì (120mila in Italia): Rom, Sinti, Manouches, Kalé, Romanichals, spesso «rappresentata» ma attraverso semplificazioni negative: casi di cronaca, di delinquenza, di furti, di degrado urbano, violenze e sgomberi.
Dunque, i giornalisti e le televisioni, così come i giornali, spesso perdono una preziosa occasione, quella di poter raccontare e divulgare la storia, la teologia, la cultura, l’arte e le tradizioni di tante popolazioni che abitano il nostro paese, come ad esempio di quella romanì, un popolo che non ha mai fatto la guerra a nessuno. Altrettanto con l’ampio pluralismo multi-culturale che arricchisce l’Italia.
L’ultimo Dossier statistico Idos-Confronti 2017 dice chiaramente che il pluralismo religioso «è uno degli aspetti più rilevanti della società. L’Italia a fronte di una presenza immigrata attestatasi nell’ultimo biennio sui cinque milioni di residenti stranieri vede come presenze religiose oltre 1,5 milioni di musulmani e altrettanti cristiani e ortodossi. Poco meno di un milione di cattolici; 340 mila tra induisti, buddhisti e sikh concentrati nel nord-est dell’Italia e nel Lazio e fedeli di altre tradizioni religiose orientali; e ancora oltre 250 evangelici e fedeli di altre chiese cristiane; 220 mila atei e agnostici e altri gruppi minori.
Una Carta per il pluralismo religioso ad hoc, che affiancasse il Manifesto di Assisi, sarebbe necessaria. Sarebbe uno strumento deontologico capace di fornire indicazioni utili agli «addetti ai lavori» sulla questione religiosa – il «fatto religioso» -, oggi particolarmente legato al fenomeno migratorio. Con maggiore frequenza, rispetto al passato, giornalisti, cronisti, informatori religiosi e vaticanisti sono «chiamati» a confrontarsi per vari motivi con il fattore «R».
Anche l’uso corretto delle parole è importante, dei termini che s’intende utilizzare. La disattenzione, l’ignoranza, il pressapochismo, oltre ad essere imbarazzanti, possono essere offensivi e lesivi.
La sensibilità e il rispetto altrui dovrebbero essere imperativi per tutte le donne e gli uomini, dunque anche e in particolar modo per giornalisti, spesso chiamati a divulgare dati e temi sensibili. Sensibilità e rispetto necessari anche quando si entra nel merito della religione, si presentano le comunità di fede e le loro attività. Sia quando si accede nella sfera privata di ogni singola persona.
Offendere, denigrare, insultare, dileggiare, odiare, ignorare, non è certamente la «missione» di chi deve informare.
«La xenofobia – ricordava il giornalista, scrittore e saggista polacco Ryszard Kapuściński – è la malattia di gente spaventata, afflitta da complessi d’inferiorità e dal timore di vedersi riflessa nello specchio della cultura altrui».
Gian Mario Gillio