L’International Film Festival di El Gouna si è concluso nel migliore dei modi, com’era prevedibile, in un’atmosfera elettrizzante fin proprio alle ultime battute della manifestazione: red carpet, cerimonia di premiazione al Marina Theatre, pubblico in gran spolvero per i 1200 posti strettamente ad invito. Una luminosa fiammata da baby-festival, essendo la rassegna soltanto al suo secondo anno di vita ma potendo contare su una partecipazione entusiasta e massiccia di giovani. La corsa ai biglietti, la fila per entrare alle proiezioni, la concitazione dell’attesa, quel parlare serrato di chi sta esplorando il proprio potenziale territorio di conquista, si coniugava alla voglia di tirar tardi perché la festa non volgesse mai al termine, e le veglie fino al sorgere del sole permettessero alla fine e all’inizio della giornata di baciarsi tra loro.
Il vento del deserto, magnifico alito caldo che mai cessa, sconfigge ogni afa, annulla ogni senso di stanchezza, spronando anzi a nuove avventure, a imprevedibili sortite. Tutti si aspettano qualcosa, dopo le interminabili immersioni in sala a divorare chilometri di fotogrammi: spettatori-protagonisti con un piede in platea e l’altro già dentro lo schermo. Quell’insostituibile emozione che in tanti conosciamo ed ha un solo nome: CINEMA; la nobile arte dell’illusione capace di renderci immortali, almeno da quando Federico Fellini ha rivelato al mondo che lo schermo è lo specchio dell’anima, le ombre sono fatte di carne, e il mare è un telo di plastica su cui naviga il REX; il gigantesco transatlantico di cartone che scivola a pelo d’acqua grazie a un contro-carrello panoramico che genera il movimento indotto; due baffi d’acqua intorno alla prua, gli oblò scintillanti di luce, il pavese di lampade colorate tra le due ciminiere, e quel muggito profondo che ne annuncia la misteriosa apparizione nella notte: wuuuuuuu! “Il Rex! Il Rex!!!”
Il cinema si nutre dunque della stessa sostanza dei sogni e spesso di significati non troppo diversi da decifrare. I giovani e meno giovani che sono accorsi alla proiezione di Otto e Mezzo – molti lo vedevano per la prima volta, gli altri lo ricordavano come una folgorazione inesorabile – sono usciti dalla sala ancora leggermente ipnotizzati, anch’essi saliti ignari sulla passerella dei personaggi chiamati alla ‘parade’, il corteo di attori, comparse, cantanti, ballerine, mimi e fantasisti, che nel glorioso teatro di rivista chiudevano la recita sfilando alla ribalta per riscuotere gli applausi del pubblico, compenso irrinunciabile della fatica del palco. Limelight. Fellini rende omaggio alle magiche luci che al bordo del proscenio segnano il confine invalicabile tra spettacolo e realtà, e ne viola incurante le regole fondendo i due mondi nel suo fatato regno di celluloide. Liquida un mito e ne crea un altro, con un colpo di genio, infilando se stesso bambino nel tight bianco del piccolo collegiale ‘mazziere’, il quale nell’ultima inquadratura del film sparisce in fondu, dissolve al nero, inghiottito dal buio. Un finale carico di enigmi e di segreti, che sarà indispensabile un giorno rivelare.
Il vecchio comico Calvero che muore in scena custodendo gelosamente il segreto del suo amore impossibile per la giovane ballerina (ricordate Charlie Chaplin?), nel successivo film di Fellini, Giulietta degli Spiriti, affronta un’allegra metamorfosi; diventerà il nonno dalla fluente barba bianca della tormentata protagonista, il libero pensatore in cilindro e bastone, che fugge insieme alla bella trapezista Fanny, in calze a rete e piume di marabù, su un aereo a pedali che si innalza verso cieli turchini. Ciò che il Mago promette, mantiene: ha squarciato per noi uno schermo intoccabile – inviolabile? – permettendo a due universi di confluire in piena libertà. Come poi avverrà in tutti i suoi film successivi. Una rivoluzione copernicana.
Per Fellini seguiranno un paio d’anni di travaglio, ad alto rischio personale (sarà a un passo dalla morte), la laboriosa gestazione di capolavori come Toby Dammit, Satyricon, I clown, Roma, Amarcord; una stagione creativa tumultuosa in cui sembra compiersi l’opera dell’alchimista, non associabile a nessun altro talento in Italia e nel mondo.
Credo che il Festival di El Gouna abbia vissuto molto positivamente questa felice scoperta; al punto che alla successiva proiezione del film Roma, l’umore del pubblico, ormai felliniano, era già mutato; aleggiava una partecipazione complice, consapevole, appagata di risate a scena aperta. Ormai ognuno aveva imparato a orientarsi nella stanze del castello incantato, e incalzante era il desiderio di sapere, di conoscere, di analizzare, di scoprire. Come sempre accade quando ci si trova di fronte all’opera d’arte inaspettata.
Peccato che gli altri due film richiesti dagli organizzatori, Amarcord e in particolare Intervista (che mi riguardava personalmente come coautore della sceneggiatura), non siano mai arrivati dall’Italia per completare l’omaggio ideato dal direttore artistico Amir Ramses. Superfluo indagare le ragioni, invalide e speciose. E doppio rammarico per le copie inviate, al di sotto delle legittime aspettative. Benché entrambe vantassero nelle avvertenze di testa il recente restauro (restauro?!), di fatto apparivano di modesta qualità. In Otto e mezzo mi è sembrato addirittura che mancasse una scena; per Roma si accennava persino a tagli di edizione eseguiti su suggerimento di Bernardino Zapponi rispetto alla copia campione licenziata dall’autore. Chi ha messo in giro questa storia, e per quale ragione? In aggiunta il risultato fotografico dei due film lasciava molto a desiderare. Le copie sembravano stampate a luce unica tanto erano evidenti la disomogeneità fra le scene e i salti di luce all’interno della stessa sequenza. Per non parlare dell’approssimazione delle scale dei grigi e della saturazione della tonalità generale, con valori luministici, cromatici e di contrasto sostanzialmente infedeli agli originali. Ne parlo per esperienza diretta e quindi con cognizione di causa, essendo Roma il primo film di Fellini che ho seguito in lavorazione, un vero ‘imprinting’ maturato nel reparto luci accanto a Giuseppe Rotunno e all’operatore di macchina Beppe Maccari. Ma di tutti i titoli indistintamente, su precisa designazione di Fellini, ho supervisionato in laboratorio la ristampa da inviare a una retrospettiva negli Stati Uniti del 1993; un compito durato mesi, svolto spalla a spalla con i datori di luce dei vari stabilimenti di sviluppo e stampa e, quando c’erano, con gli stessi direttori della fotografia. Cinecittà International, presieduta all’epoca da Vittorio Giacci, pubblicò per l’occasione una nutrita brochure di documentazione.
Ora è pur vero che lo spettatore medio, non possedendo oltretutto termini di confronto, difficilmente riesce ad accorgersi delle disfunzioni tecniche presenti in una pellicola. Nondimeno resta incomprensibile l’atteggiamento non rigorosamente filologico adottato dagli istituti preposti, nei confronti del nostro massimo artista cinematografico. Sarà necessario che le cose cambino; per Fellini in primo luogo ma anche per tutto l’archivio del cinema italiano; i nostri film del passato debbono poter circolare ovunque vengano richiesti, senza impedimenti e restrizioni, e nelle migliori condizioni di restauro. La salvaguardia della memoria rappresenta all’estero l’immagine stessa della Nazione e della sua salute culturale; premessa indispensabile a qualsiasi ulteriore discorso economico e commerciale.
A Rimini stanno per costruire un museo diffuso di rilevante impatto dedicato a Federico Fellini; lo Stato ha stanziato finanziamenti significativi. La macchina operativa è stata già avviata da mesi, con la ristrutturazione di Palazzo Valloni e il restyling del Cinema Fulgor “alla maniera dell’antica Hollywood” compiuto dallo scenografo Premio Oscar Dante Ferretti. Forse bisognerebbe approfittare di questo sforzo di tutti gli enti coinvolti per mettere ordine anche nella gestione culturale dei film del Maestro. In attesa della nascita di una fondazione apposita, sarebbe opportuno che, nei ritardi, la Cineteca di Rimini, già preposta alla gestione dell’archivio, assumesse anche un compito di coordinamento, supervisione e diffusione dell’opera di Fellini, da ricondurre fedelmente, una volta per sempre, al suo originario splendore. Per la globalità del cinema italiano esistono altri istituti investiti di tale compito; ma per Fellini andrebbe forse configurata una tutela specifica nell’ambito delle responsabilità attribuite al nascente Museo riminese, chiamandolo a inglobare anche le mansioni di una vera e propria Agenzia felliniana.
Il Festival di El Gouna è servito a offrire una finestra sulle iniziative da realizzare all’estero. I paesi emergenti, ricchi di vitalità, sono protesi verso il cinema del futuro, il quale in questo momento vagisce ancora nelle incubatrici ma presto acquisirà dimensioni non difficili da intuire. E allora il deposito della memoria sarà ancora più prezioso e insostituibile. Fellini appartiene al futuro non diversamente da Giotto, Piero della Francesca, Leonardo, Raffaello e tutti gli altri geni della pittura che ci hanno insegnato a guardare non soltanto la realtà ma noi stessi. Le sue opere possiedono le prerogative per girare facilmente il mondo, ambasciatrici di luce e di pace nel linguaggio universale dell’arte capace di oltrepassare latitudini e culture. El Gouna ne è stata l’ennesima riprova.