Giunto ai suoi 96 anni di età il celebre scrittore decide di compiere un inaspettato coming out e nel suo ultimo volume, appena uscito in libreria, avverte la necessità di riconsiderare in una chiave diversa il rapporto con il suo più caro amico di infanzia, un sentimento tanto intenso da apparire quasi di natura omoerotica.
Accade che il giorno del suo novantatreesimo compleanno gli venga recapitato a casa un plico di lettere da lui spedite in altri tempi e di cui aveva completamente dimenticato l’esistenza: “Queste lettere infatti sono quelle che io ho scritto a Peppino quando ero militare a Caserta, dal febbraio a maggio del ‘43. Non sapevo che Peppino le avesse conservate e nemmeno ricordavo di averle scritte, ma ora che le ho lette fanno certamente parte della mia biografia, e riguardano un me stesso che solo ora, attraverso la lettura di queste lettere, mi si è palesato. Davvero non sapevo di essere stato un così sprovveduto e inerme adolescente alla mercé dei miei confusi sentimenti e stati d’animo”.
Siamo nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Il protagonista è stato richiamato alle armi, sradicato dalla sua vita civile di “ragazzo un po’ viziato” e spedito presso il 52° Battaglione d’Istruzione che egli, per dispetto, ribattezza di Distruzione. La naia a Caserta è quanto di più estraneo alla sua mentalità e alle sue abitudini, il rifiuto che ne prova è caparbio quanto disperato; preferisce “il digiuno alla gavetta”, ogni rito gli è insopportabile, dal risveglio all’alba fino all’ora del silenzio in camerata. Patisce l’acqua gelata delle abluzioni, le fasce alle caviglie, gli scarponi, l’orbace pungente, i pidocchi nel pagliericcio che non lo lasciano dormire: “tutto era disgustoso come il sapore del rancio”. E inoltre “il febbraio del ’43 fu un mese maledettamente freddo.”
La sua “furente inadattabilità” si salda all’acuta nostalgia per gli amici di Posillipo e di piazza Sannazzaro, “dov’era la casa di Peppino”. L’unica fuga mentale e consolazione rimangono le lettere che egli scrive all’amico, “un’amicizia molto simile all’amore, anche se non proprio omosessuale perché non c’era sesso e c’era forse troppo sentimento”.
Le diciotto lettere, riportate integralmente nel libro, riferiscono dello stato di totale, profondo malessere che lo attanaglia, inducendolo a un atteggiamento di autolesionismo. Il 14 aprile è affranto perché gli tagliano i capelli a zero: “Tu puoi ben immaginare quanto sia cocente per me questa umiliazione”. Che definisce subito dopo “uno sfregio”. Arriva ad odiarsi: “Non sono che un pezzo di carne dolorante. Mi sento miserabile persino in questo mio patire. Come vedi attraverso uno dei miei periodi di disprezzo per me stesso. Mi dà ai nervi la mia persona, come se fosse un estraneo. Mi sono antipatico”.
Esaltanti, a contrasto, appaiono le righe che dedica all’amico: “Il solo guardarti è per me una certezza. Te ne sei accorto? Forse no”. “Solo tu potresti sollevarmi. Vorrei buttarti le braccia al collo e piangere, magari” “Io sono ferito, Peppino, ferito”. Esclama nella lettera del 14 aprile. “Credo che tra noi esista un fatto quasi amoroso anche se non nel senso sessuale della parola. Io ti amo. E amare è un verbo che si usa per le donne”. “Ora non posso fare a meno di te e ti assicuro che mi sono realmente ingelosito del tuo affetto per Achille”.
Struggimenti amorosi sono i saluti, dal semplice “Baci, Duddù”, a “Tanti baci da Duddù”. I congedi si elevano presto a vette vertiginose: “Caro, ti amo, e poi forse non mi faccio capire. Spero tanto di vederti per continuare quel colloquio iniziato a voce e tacendo, dentro la buia stazioncina della mia partenza. Ti bacio. Duddù”. “Oggi sono di picchetto. Il caporale La Capria ti bacia”. “Ho dimenticato di dirti che ti voglio un sacco di bene”. Oppure: “Tu appartieni a quella categoria di persone cui perdono tutto per troppo amore. E tanto basta”. E infine le invocazioni languidissime: “Voglimi bene quanto io te ne voglio. Scrivimi. Baci Duddù”.
Sono davvero slanci che solitamente si riservano a una fidanzata.
Per la cronaca l’oggetto di tanto amore era Giuseppe Patroni Griffi, destinato al successo come drammaturgo, regista teatrale e cinematografico. Al quale lo scrittore rimarrà affettivamente legato per tutta la vita, con una nota di particolare affinità rispetto agli altri compagni di liceo che sarebbero diventati in seguito tutti famosi a Roma: Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Giorgio Napolitano, di tre anni più giovane. E forse anche Achille Millo (Scognamillo) che abbandonò la facoltà di medicina per seguire la vocazione del palcoscenico.
Lo scrittore è Raffaele La Capria e le lettere provengono da un cassetto dimenticato in casa di Patroni Griffi e “recuperate non so come da Fausto Nicolini, amico di Aldo Terlizzi, che era il compagno e poi è stato l’erede di Peppino”.
Il carteggio costituisce una dei nove capitoli di cui si compone Il fallimento della consapevolezza, e rappresenta la più luminosa semplificazione di come La Capria riesca a trasformare in racconto ogni occasione, ogni evento personale, catturando nella tela non solo l’attenzione ma l’animo stesso del lettore. L’assunto rimane pur sempre il medesimo, in ogni artista: l’unica possibile verità è la verità poetica, capace di donare alla vita quel significato che nella quotidianità scompare, perduto nella nebbia: “La vita è quello che ci accade quando non ce ne accorgiamo”.
Questa ferita irrimarginabile, spiega l’autore, attraversa l’intera giornata del protagonista di «Ferito a morte», con cui lo scrittore vinse nel 1961 il Premio Strega. Il vulnus, il filo rosso che unisce tra loro i capitoli del libro si sviluppa parallelamente alla riflessione lucidissima sulla natura della propria scrittura, invariata dalla prima prova di «Un giorno di impazienza» del 1952 a «L’Armonia perduta» del 1986 (Premio Napoli), e poi ai tanti titoli imperdibili che sono seguiti fino a oggi.
In Il fallimento della consapevolezza è ampiamente affrontato l’argomento che più gli sta a cuore come artista e come intellettuale, vale a dire l’equivoco di fondo su la napoletanità. La discrasia, la frattura risale “alla Rivoluzione del 1799 quando la guerra civile sconvolse la città e le inferse una ferita sanguinosa. Tutto ciò che è avvenuto dopo è un tentativo di sanare quella ferita nell’unico modo che sembrava possibile: recitando quella “armonia” che prima era vagheggiata e poi fu perduta”. Ne segue il prevalere di una finzione, una visione di Napoli “dove sorridere volle il creato” (Santa Lucia); la Napoli delle gouache, la Napoli delle canzoni di un’Armonia appunto sognata, cantata. Un’analisi che nelle pagine dello scrittore di trasforma in dolente narrazione.
Nell’autopresentazione (Cap.V) La Capria, che si riferisce a se stesso in terza persona, scrive: “Egli non è un letterato né un romanziere, è uno che sta in mezzo e cerca di combinare una naturale inclinazione saggistica con una naturale inclinazione narrativa, fondendo le due cose – quando capita – con una certa levità”.
E’ vero, il suo segreto, la sua caratteristica inconfondibile di scrittore è la leggerezza; espressa in quel suo testo ispirato fin dal titolo che è «Lo stile dell’anatra» (2001); dove viene teorizzato come ogni sforzo dell’artista debba risultare invisibile, simile allo scivolare elegante dell’anatra sull’acqua, di cui mai scorgeremo la convulsa agitazione delle zampine palmate sotto la superficie.
La leggerezza è una venticello lieve che rende frizzante anche la dura diatriba su Napoli ingaggiata con il sociologo Domenico De Masi (Cap. VI): “La napolitanità ha ammansito la plebe con la dolcezza delle canzoni, con la festa di Piedigrotta, con una religiosità permissiva”.
Travolgente il IX e ultimo capitolo «Gli anni della Dolce Vita» dedicato all’influenza che esercitò sulla società il capolavoro di Fellini. Lo scrittore ne recupera il titolo provvisorio «La bella confusione» che il regista, in verità, aveva pensato inizialmente per «Otto e mezzo». Ma la metafora funziona ugualmente bene per descrivere la Roma di quegli anni, intorno ai Caffè Rosati e Canova di Piazza del Popolo “dove attori, registi, architetti, scenografi, pittori, scrittori, politici si scambiavano opinioni”. La Capria ricorda Ercole Patti e Sandro De Feo, Mario Soldati che polemizzava con il serafico Bassani e con il pacifico Bertolucci; Elsa Morante col suo corteo di giovani ammiratori, Moravia che usciva la sera con Pasolini e Enzo Siciliano. E Laura Betti che, a tempo di rock. cantava la canzone scritta da Soldati per Roma: “I hate Barocco/ I hate Scirocco/ I haaate Rome!” E poi Goffredo Parise, Gadda, Arbasino, Malerba, Manganelli, Gugliemi, Pagliarani, Cesare Garboli. E Cesaretto, la trattoria di Via della Croce, diventata quasi un centro culturale, essendo frequentata anche da Flaiano, Giovanni Russo, Maccari. Rievoca il cinema con le sue lusinghe: “Scrivere sceneggiature era una delle attività più ambite perché più remunerative, da un momento all’altro ti sentivi ricco”.
“La bella confusione – scrive ancora La Capria – in effetti era entrata nella nostra vita e nella nostra immaginazione, era entrata nei libri che stavamo scrivendo ed era diventata la nostra “filosofia della composizione”, il “disordine prestabilito” dei libri di Gadda, di Arbasino, di Manganelli, e se permettete, anche del mio Ferito a morte”.
Presto la bella confusione rivelò la sottile angoscia che nascostamente la pervadeva e che del resto era già in Otto e mezzo di Fellini e in molti film di Antonioni.
“E così, per concludere, brevi furono gli anni felici della Dolce Vita e breve la mia giovinezza che la attraversò”.