Il variegato mondo della cultura si ritrova in piazza a Roma il prossimo sabato 6 ottobre, interpellando i diversi interlocutori politici e sociali sul rispetto dell’articolo 9 della Costituzione italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura…”. Un principio sacrosanto che, nel corso degli anni e pur con compagini governative diverse, è stato via via indebolito se non vanificato. Con misure e responsabilità differenziate, certamente. I tagli operati dai governi Berlusconi-Tremonti mantengono saldamente il primato negativo. E proprio in quella stagione diverse furono le mobilitazioni dell’universo della cultura, dell’informazione e dello spettacolo. Ci ricordiamo con nostalgia la stracolma piazza del Popolo della capitale nell’ottobre del 2009, richiamata proprio da obiettivi simili a quelli annunciati dagli animatori della scadenza di sabato. Nella sede del Conservatorio romano e dopo un’efficace introduzione del direttore Roberto Giuliani tesa a sottolineare il carattere produttivo e non meramente sovrastrutturale dell’attività musicale, si sono susseguiti interventi numerosi della vastissima compagine promotrice: dalle articolate sigle sindacali; all’Anpi; all’associazione nazionale degli Archivi (Anai); a Potere al popolo; al “comitato delle fondazioni lirico-sinfoniche”; al collettivo di attori “facciamo la conta”; al gruppo “mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, ad Articolo21. E altri ancora.
Una tale ampiezza di rappresentanza dei settori interessati è assai significativa della domanda tragica che corre tra lavoratori, associazioni e professionisti: che rapporto c’è tra i pomposi proclami sulla cultura come “il nuovo petrolio” o “il più importante dicastero economico” e le linee concrete? Passiamo dalle improvvisate privatizzazioni all’assenza di una vera riforma di sistema , essendo –ad esempio- un eclettico contenitore la legge del 2017 sullo spettacolo dal vivo, i cui decreti attuativi richiedono ora molta cura; e risultando terribile l’articolo 24 della legge n.160 del 2016 che declassò le fondazioni lirico-sinfoniche. La lista degli orrori è lunga e, al di là di qualche autocritica di maniera, servono ora svolte reali ed impegni precisi.
Rimane, infatti, inquietante e delittuoso il ruolo marginale assegnato al patrimonio artistico, agli archivi, al cinema, alla musica, al teatro, alla danza: vere eccellenze che ancora rendono l’Italia autorevole nel villaggio globale, dove la lingua italiana è la sesta più parlata proprio in virtù di una invidiata produzione culturale. Mentre, come spiegò una ricerca della Cgil, gli attori arrivano sì e no a 5000 euro all’anno di reddito con 34 giornate di lavoro; e i diplomati dei conservatori di musica (la cui riforma è sparita dalle agende delle priorità) devono correre all’estero; disoccupazione e precariato imperano.
Una simile contraddizione tra le potenzialità grandiose di un tesoro nazionale e una gestione pubblica così gretta e mediocre non è solo una sequenza inesorabile di ritardi ed errori. Dietro l’apparente cialtroneria di molti si cela una strategia. Prima la televisione generalista a trazione commerciale, adesso una rete invasa dagli oligarchi dei dati, ieri e oggi le tentazioni autoritarie post-democratiche postulano una platea di sudditi ignoranti. Né cittadini, né davvero autonomi nelle decisioni. Altrimenti non si spiegherebbe come la cultura sia solo lo 0,25% del Pil. Mentre dovrebbe toccare il 3%.
Che succederà nella prossima legge di bilancio? Come prima, più di prima?